A vent’anni dalla scomparsa di Luigi Ferro, grande collezionista d’ arte italiana del ‘900, una mostra celebra la sua raccolta, al Mart di Rovereto.

STORIA DI L.F.

VISIONI DI UN COLLEZIONISTA

a cura di Denis Isaia

Mart Rovereto, 8 marzo – 15 giugno 2025

A vent’anni dalla scomparsa di Luigi Ferro, tra i maggiori collezionisti di arte italiana del Novecento, una mostra celebra la sua raccolta, dal 2006 in deposito al Mart di Rovereto.

Conosciuta come “la Collezione L. F.” viene riallestita interamente dopo quasi vent’anni dall’ultima esposizione, in occasione della quale fu definita “un tesoro”.

Tra i Boccioni e i de Chirico, i Morandi e Fontana anche due auto d’epoca, di cui una appartenuta a Clint Eastwood.

Da Umberto Boccioni a Giorgio de Chirico, da Savinio a Mario Sironi, da Giorgio Morandi a Lucio Fontana, circa 50 opere testimoniano il gusto e la vita di Luigi Ferro, un collezionista selettivo e scrupoloso che, insieme alla moglie Carla Riboni, ha dato vita a un’eccezionale raccolta di veri capolavori del Novecento italiano.

Nel 2007, il Mart aveva celebrato l’arrivo della Collezione L.F. con un percorso espositivo e un catalogo basati sulle tipologie storiche e stilistiche, un raffinato compendio delle principali correnti dell’arte italiana del XX secolo. In quasi vent’anni di presenza al Mart, queste opere hanno avuto numerose occasioni espositive che ne hanno arricchito la biografia: gli artisti e le opere della Collezione L.F sono stati valorizzati in numerose mostre, progetti e pubblicazioni, illustrano i libri di storia dell’arte, accompagnano i saggi nei cataloghi d’arte, compaiono sulle riviste di settore e persino nell’archivio digitale Google Art & Culture.

In più di un caso, si tratta di lavori straordinari e così noti da essere diventati popolari, come una delle celebri Piazza di Italia realizzate negli anni Venti da De Chirico, presente in mostra con ben otto prestigiose opere; ma anche un raro Autoritratto di Morandi, anche lui in mostra otto volte; oppure il Povero pescatore di Sironi, il Ritratto di Madame M.S di Gino Severini e, tra i più emblematici, il Nudo di spalle di Umberto Boccioni.

E ancora, tra i grandi nomi, Campigli, Casorati, Carrà, Marino Marini, de Pisis, Balla, Fontana, un prezioso disegno di Klimt e un acquarello di Kandinskij.

La storia di L.F. si è intrecciata con quella del Mart di Rovereto, dando vita a una grande, unica, storia di amore, collezionismo e valorizzazione dell’arte. Negli stessi anni in cui la Collezione Ferro giungeva al Mart, il museo ebbe l’audacia di allestire Mito Macchina. Storia, tecnologia e futuro del design dell’automobile, una mostra divenuta epica tra gli studiosi di museografia, che seppe attrarre tanto il grande pubblico quanto gli amanti del genere.

Oggi nelle sale dedicate a Ferro campeggiano, luminose e bellissime, due auto d’epoca, acquistate dal collezionista: una Lancia Aurelia B24 S del 1955 e una Ferrari 265 GTB del 1966. Quest’ultima non è un multiplo qualunque, ma una leggendaria 265 appartenuta a Clint Eastwood.

Alla base della nuova mostra, curata da Denis Isaia, c’è la volontà di illustrare la biografia sentimentale di Luigi Ferro, un uomo nato in un ambiente umile che con concretezza, caparbietà e intelligenza è riuscito a costruire una vita di successi imprenditoriali e, parallelamente, di fine collezionista. Storia di L.F. mette in scena i principali nuclei che hanno mosso i suoi sentimenti e le sue passioni. Dal racconto del mondo rurale ancora di impronta ottocentesca legato all’infanzia umile nei sobborghi veronesi, al ruolo che nella sua vita hanno avuto le donne – in primis la moglie Carla Riboni – alla scoperta della modernità e dello stile (in mostra ci saranno anche due automobili appartenute a Ferro), fino alla meditazione più ermetica raccolta nella profonda attenzione che Luigi Ferro ha dedicato a Giorgio de Chirico.

Se la prima grande e continua passione è stata quella per la più innovativa pittura figurativa italiana della prima metà del secolo, non mancano la comprensione dei nuovi linguaggi del secondo Novecento, rappresentata per esempio da un Concetto spaziale di Lucio Fontana del 1960.

Dotato di straordinarie capacità di visione ed eleganza, Luigi Ferro è stato un vero e proprio uomo d’impresa conquistato dall’arte, di cui ha saputo riconoscere immediatamente i valori di qualità e rarità. In questo straordinario nucleo di opere si riflette “il grande racconto della vita” che Luigi Ferro cercava nell’arte, la storia di un fine collezionista che amava scegliere, come lui diceva, i “quadri che mi rappresentano”.

La mostra Storia di L.F. Visioni di un collezionista è accompagnata da un catalogo con testi di Camilla Ferro, figlia di Luigi, e di Massimo Di Carlo, gallerista e amico. Presenti, inoltre, contributi di Vittorio Sgarbi, Presidente del Mart, e di Denis Isaia, curatore della mostra; il catalogo completo delle opere e le schede delle stesse, a cura di Gabriele Salvaterra, assistente curatore.

Storia di L.F.

Testo in catalogo di Denis Isaia

Nel 2025 ricorre il diciannovesimo anniversario del comodato della Collezione L.F. al Mart, una collaborazione nata dalla volontà della Direttrice Gabriella Belli di plasmare il Museo in un’istituzione di prestigio, capace di dialogare alla pari con i grandi musei internazionali, grazie alla professionalità dell’operato nonché al valore del patrimonio in sua custodia. A distanza di anni, la bontà di questa scelta è evidente. La Collezione L.F. ha avuto un ruolo centrale in numerose mostre dedicate all’arte italiana del XX secolo, contribuendo a tracciare percorsi espositivi che hanno segnato la storiografia recente, a Rovereto come a Roma, a Berlino a Parigi o New York. L’importanza delle istituzioni che hanno richiesto in prestito le opere della Collezione L.F. – tra le altre il Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Parigi, il Metropolitan Museum of Art, New York, la Martin Gropius Bau, Berlino, la Fundación MAPFRE, Madrid – testimoniano del valore di un patrimonio che si distingue per una straordinaria sintesi: una raccolta giunta a una modesta quantità complessiva di opere, ma composta quasi esclusivamente da capolavori, frutto di una passione collezionistica interpretata come un mestiere mosso dal desiderio dell’eccellenza e dalle necessità della coerenza. Il successo della collaborazione tra la Collezione L.F. e il Mart testimonia la necessità di proseguire il dialogo tra istituzioni museali e grandi collezionisti privati, in un sodalizio che supera il principio della narrazione individuale per collocarsi in una dimensione storica più ampia, di respiro collettivo. Diversamente, negli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita di numerosi enti privati basati su collezioni personali: iniziative nobili che vivificano i territori, ma rischiano di drenare patrimoni artistici ed energie che possono essere destinate a un progetto d’ordine superiore, alimentato da una pluralità di forze, a volte in disaccordo tra loro, ma che condividono la necessità di una solida base collettiva da cui tutti trarranno vantaggi. A tal proposito, ogni caso meriterebbe un’analisi specifica, ma è evidente come nel medio periodo sia l’unione delle forze l’unica garanzia di competitività. Così sono nati i patrimoni impareggiabili di tutti i più grandi musei del mondo che oggi attraggono milioni di visitatori. Credo di non sbagliare attribuendo a Gabriella Belli questa visione quando, nel 2007, ha accolto la Collezione di Luigi Ferro con la mostra Maestri del ’900: da Boccioni a Fontana. La collezione di un raffinato culture dell’arte moderna. L’esposizione non solo inquadrava le opere nella storiografia ufficiale, ma riconosceva nei capolavori della Collezione le tappe fondamentali dell’arte del Novecento, ricostruendone alcune parti, dal Futurismo al Ritorno all’ordine, da Les Italiens de Paris all’Astrazione. Quella prima mostra con la Collezione L.F., fu la matrice di molte altre che seguirono negli anni e che continuano ancora oggi, mai più dedicate alla Collezione, ma in cui la stessa ha continuato a essere protagonista. A tal proposito gli apparati di questo catalogo propongono la bibliografia e i curricula aggiornati delle opere. A fronte di quasi vent’anni in cui la Collezione L.F. ha alimentato la scena museale, questa rassegna intende spostare il focus sulla figura del collezionista stesso, indagandone la dimensione più intima. Da un certo punto di vista, come curatore del progetto propongo ciò che lui avrebbe schivato: rendere pubblica una vicenda privata, spostando l’accento dai quadri alla persona, dal capolavoro collezionistico al capolavoro esistenziale. Per proteggere il suo pensiero, lo faccio in una mostra e attraverso le mie scelte, che inevitabilmente restano il frutto di un’intuizione. L’assunto alla base della mostra è quindi nel dialogo immaginario con L.F., dove la mia controparte è la sua Collezione, il distillato simbolico più evidente di sé. L’attacco nella Storia di L.F. è marcato dall’archetipo del cavallo, segno di un sogno eroico d’infanzia fatto di volontà e visione, che L.F. perseguirà. È ne La cavalcata del 1925-1927 di Virgilio Guidi che ritracciamo il manifesto di una vita. L’opera mostra due signori eleganti che attraversano la campagna a cavallo con il piglio dei proprietari terrieri. La loro realtà di possidenti è la visione di L.F. e il cavallo è il simbolo di quel traguardo. Hanno, invece, la spensieratezza del sogno i cavalli di Giorgio de Chirico del 1926 che corrono su un paesaggio costellato dalle tracce del mito. Altrettanto vitali sono quelli su fondo oro di Pompeo Borra, così come il cavallo e il suo cavaliere nella scultura di Marino Marini, una delle ultime opere acquistate, ma anche uno degli ultimi rigurgiti nel Novecento di eroismo equestre. L’infanzia di L.F. scorre in una vita scandita dai ritmi della terra, dai fiori, dai paesaggi, dalle case centenarie. Da adulto L.F. la evoca e la ripercorre come in un tempo lontano da cui pare trarre conforto ed energia. Le opere dedicate a questo tema sono numerose. Spiccano gli otto quadri di Giorgio Morandi, tutti sceltissimi, con cui Ferro istituisce un dialogo elegiaco. Tra questi, uno dei sette autoritratti noti, i Fiori del 1928, la Natura morta del 1929 che, come riporta Flavio Fergonzi nella scheda critica del 2007 qui ripubblicata, è “l’unico caso di replica letterale dell’intero catalogo pittorico morandiano”

o il Paesaggio con case del 1941 che, ricorda ancora Fergonzi, “fa parte di una superba serie di quattro che furono dipinti a Grizzana durante l’estate del 1941”. Nel racconto per immagini della nostra Storia, seguono le donne: madri e mogli, perno di una struttura comunitaria tradizionale, senza il quale tutto tragicamente crollerebbe. Tra queste, uno dei capolavori assoluti della Collezione: il Nudo di spalle di Umberto Boccioni, datato 1909. Un ritratto della madre, Cecilia Forlani, catturata di spalle, nuda mentre si volta. L’opera si inserisce nella tradizione ritrattistica boccioniana, che attraversa realismo, divisionismo e futurismo. La madre è un soggetto costante, un’icona affettiva e simbolica. Nel Nudo di spalle, tuttavia, emerge un’intimità inedita: la sensibilità luministica nella resa del corpo e l’anomalia della nudità restituiscono un’immagine di forza femminile radicata nell’identità familiare, cara tanto a Boccioni quanto a Ferro. Non solo la madre, ci sono altre donne, belle e aggraziate, come Donna con occhi azzurri (1894-1900) o Ritratto di fanciulla con fore (1914) di Federico Zandomeneghi. Manca il corpo erotizzato della donna tanto caro ad altri collezionisti, mentre campeggiano due importanti maternità: Souvenir d’enfance (1929) di Mario Tozzi e Madre e figlia (1949) di Massimo Campigli. La Storia radicata nel tempo di L.F. a un certo punto incontra la modernità. Luigi Ferro ama le sfide e, come racconta la figlia Camilla nel testo in catalogo, sa che per vincerle bisogna fare i conti anche con ciò che non si conosce. La donna nuova dopo il monumentale esempio boccioniano è Madame M.S. (1913-1915) di Gino Severini, tagliente e frivola, totalmente moderna. Di Balla sceglie Velocità, la numero 1 del 1913, ma in un disegno di carta a china. Poi Ballerina ancora del 1913 di Severini, strabordante di vita e brillante. Fino a Concetto spaziale (1960) di Lucio Fontana. Ferro rifugge percorsi tortuosi: niente Prampolini, niente Burri, niente Moreni. Avrebbe comprato Tancredi, credo io, ma non ha fatto in tempo o era distratto dalle prove più concrete del futuro, quelle che dalla mano di un progettista attraversano la complessa filiera della produzione per incantare le strade: la Cisitalia 202 SMM (Sport Mille Miglia), la Lancia Aurelia B24 S, la Mercedes 300 SL Ali di gabbiano e una Ferrari 265 GTB appartengono alla Collezione Ferro. Due di queste, la Aurelia e la Ferrari sono in mostra, quanto alla Ferrari va annotato che non si tratta di un multiplo qualunque, ma della 265 appartenuta a Clint Eastwood. È questa rarità assoluta a certificare ancora una volta la capacità di Ferro di affidarsi agli interlocutori giusti. Una qualità che ha contribuito a rendere la sua raccolta un unicum nel panorama collezionistico. Non so a chi si debba l’individuazione della Ferrari, invece è certo che nel caso delle opere d’arte Massimo Di Carlo ha rappresentato un interlocutore preparato e affidabile grazie alla sua profonda conoscenza dell’arte italiana del XX secolo e alla sua costante attenzione alla qualità. L’ultima sezione della mostra risponde a un’esigenza più profonda, che trascende la materialità delle opere per approdare a un nodo che interroga la ragione stessa dell’arte del collezionismo. La sala, dominata dalle opere di Giorgio de Chirico si configura come un territorio in cui la concretezza degli oggetti e le domande ultime sull’esistenza si incontrano. I muri si popolano di rebus e simboli caduchi, figure mitologiche, torri, rovine. Sono tutti oggetti abbandonati ai pensieri dell’uomo. La Piazza d’Italia con torre rosa del 1934 di de Chirico, i possedimenti misteriosamente incorporati in Nobili e borghesi del 1933 e Le muse del 1927 o l’altra Piazza d’Italia (Souvenir d’Italie) del 1924-1925 o ancora in questo trionfo dechirichiano le colossali Due fgure mitologiche del 1927 (fanno il paio con l’impagabile Il povero pescatore di Sironi del 1924-1925) o i Mobili nella valle sempre del 1927. Oggetti ultimi e impareggiabili per soggetto e qualità, di cui L.F. si circonda per interrogare le Storie e gli archetipi della vita con il solo fine di esserne ostinatamente parte.

Storia di L.F. Il percorso di mostra nelle didascalie ragionate. Virgilio Guidi, La cavalcata (Due cavalieri). Sul retro: Duello alle porte di Roma, 1927, 1925-1927 I cavalli appartengono al mondo di Luigi Ferro fin da quando, ragazzino cresciuto in campagna, amava confidarsi con questi animali amici: “Ci parlavo con il mio, gli raccontavo quello che avrei voluto fare da grande”. In età adulta, continuerà a essere in confidenza con loro, cavalcandoli anche a pelo nudo, perchè “senza sella il contatto è più sincero”. Non stupisce, quindi, che nella collezione L.F. vi siano più opere che rappresentano questi animali, come questo dipinto di Virgilio Guidi sul tema delle passeggiate a cavallo, che l’artista romano poteva osservare dallo studio all’Uccelliera di Villa Borghese. Un tema che Guidi rielabora in ben sette opere tra il 1925 e il 1930. Questa tela si distingue dalle altre poiché è dipinta anche sul retro, con un diverso soggetto: un duello alle porte di Roma, una cronaca del suo tempo che l’artista interpreta con richiami alla pittura trecentesca e il suo caratteristico stile dalle forme semplificate e plasmate dalla luce. Marino Marini, Cavaliere (Cavallo e cavaliere), 1948-1980

Il tema dell’unione mistica tra uomo e cavallo costituisce uno dei soggetti prediletti dallo scultore Marino Marini. In quest’opera – una delle sette fusioni in bronzo ricavate molti anni più tardi dal bozzetto in gesso di una scultura del 1948, di formato più grande – il cavaliere ha la testa rovesciata all’indietro per guardare verso il cielo, simboleggiando così l’unione tra la spiritualità dell’uomo e la vitalità fisica del cavallo. Le forme stilizzate richiamano quelle dell’arte etrusca, particolarmente cara a Marini, e rispondono a una marcata ortogonalità, con la schiena e la testa del cavallo allineate su una linea orizzontale e il corpo del cavaliere che segna quella verticale. In seguito, le sculture di Marini perderanno questo perfetto equilibrio, esprimendo sempre di più “l’angoscia causata dagli avvenimenti della mia epoca”, come afferma l’artista, attraverso pose più tragiche ed espressive.

Giorgio Morandi, Fiori, 1928

Insieme a de Chirico, Giorgio Morandi è l’artista sul quale si è maggiormente concentrata la scelta di Luigi Ferro. Nella sua collezione figurano tre paesaggi, quattro nature morte e un rarissimo autoritratto, che Ferro definì “l’affare della vita”.

Questa tela del 1928 si distingue da altri dipinti sul tema dei fiori che Morandi, solitamente, ritrae in vaso. Qui, invece, l’artista sceglie di appoggiare tre mazzi di crisantemi sul piano del tavolo, sovrapponendoli e orientando le piccole corolle verso l’osservatore, i gambi a sottolineare la prospettiva. L’opera è un raffinato esempio di pittura tonale, basata sulle sfumature calde dell’ocra e del marrone; i petali chiari, probabilmente bianchi, fanno pensare a mazzi fatti seccare più che a fiori freschi. Luigi Ferro acquista la piccola tela come dono per la moglie Carla, scegliendo un mazzo di fiori non convenzionale e decisamente immortale.

Filippo de Pisis, Natura morta con mortaio, conchiglia e pesce, 1925

Le nature morte dipinte dal giovane Filippo de Pisis negli anni trascorsi a Roma, prima di trasferirsi a Parigi, restituiscono l’atmosfera rurale delle antiche cucine, spesso avvolte nella penombra, odorose di cibo. Su rustici tavoli di legno l’artista compone vecchi utensili ed elementi naturali spesso ricorrenti nelle sue tele, come la grande conchiglia che qui è accostata al mortaio. Altrettanto frequente è il motivo del “quadro nel quadro”, con la tela che rappresenta un paesaggio appoggiata alla parete per creare un’illusoria apertura prospettica. In seguito, l’artista schiarirà la sua tavolozza adottando tonalità più vivaci e brillanti ma in quest’epoca prevalgono ancora i riferimenti all’arte seicentesca, evocata anche dall’atmosfera pastorale del paesaggio sullo sfondo.

Massimo Campigli Figure (Donne sul terrazzo. Biografia), 1931

L’importanza del ruolo delle donne nella vita e nelle opere di Massimo Campigli è, probabilmente, qualcosa in cui Luigi Ferro ha potuto riconoscersi. Le figure femminili ritratte sul terrazzo sembrano provenire da un lontano passato, non solamente dall’infanzia dell’artista trascorsa in Toscana, in una casa abitata da sole donne. Come altri artisti dell’epoca, Campigli guarda all’arte antica e ad affascinarlo è soprattutto quella etrusca, scoperta nel 1928 in occasione di una visita al

Museo di Villa Giulia, a Roma. Le otto figure, con i corpi stilizzati ad anfora e la frontalità arcaica, ricordano infatti quelle dell’arte funeraria etrusca, soprattutto nelle coppie con le braccia o le mani intrecciate. La tecnica, un olio magro dalla pasta densa, talvolta incisa come un graffito, richiama alla mente antichi affreschi parzialmente scrostati.

Arturo Martini, Nena, 1930

L’artista ritrae sua figlia Maria, chiamata affettuosamente Nena e nata nel 1921 dal matrimonio con Brigida Pessano, immaginandola affacciata al finestrino di un treno che la porterà in collegio, con l’espressione un po’ triste di chi si allontana per la prima volta dalla famiglia. Il tema della fanciulla in viaggio si lega, così, a quello della malinconia, più volte trattato da Martini negli anni precedenti. La posa della ragazza appare spontanea, come colta dal vero, ma il risultato è una composizione meditata, nello spirito di Novecento italiano e con chiari riferimenti all’antica arte italica, in particolare quella etrusca. L’opera viene realizzata nel periodo in cui l’artista sta sperimentando la lavorazione della creta, ad Albisola in Liguria, dove lo ricorda il poeta Camillo Sbarbato: “Trovai Martini in uno stambugio che stava, per così dire, dando alla luce la sua terracotta: il busto di una ragazzina con le trecce accercinate, il berrettuccio e una trasognata timidezza nel viso già serio”.

Umberto Boccioni, Nudo di spalle (Controluce), 1909

Prima di diventare uno dei protagonisti dell’avanguardia futurista, Boccioni si forma alla lezione divisionista di Giacomo Balla, di cui frequenta lo studio romano. Questa tela, dipinta nello stesso anno in cui Marinetti pubblica il primo manifesto del Futurismo, mostra l’uso del colore puro steso in filamenti che si intrecciano per suggerire la mescolanza ottica delle tinte. Anche la preferenza per la figura osservata in controluce rimanda al Divisionismo, mentre la scelta del soggetto è insolita per Boccioni: un nudo in cui si riconosce un ritratto della madre, probabilmente frutto di un montaggio tra il suo volto e un altro corpo, forse ispirato a un celebre quadro di Toulouse-Lautrec, Au salon de la rue des Moulins.

Vasilij Vasil’evič Kansinskij, Rot in Spitzform, 1925

La raccolta di Luigi Ferro comprende solo due opere astratte. Come ricorda il collezionista, “mi sono avvicinato all’Astrattismo per superare i miei limiti. […] per conoscere e imparare di più”.

Nel 1926, Kandiskij pubblica Punto, linea, superficie, la sua teoria sugli elementi primari della forma, del colore e della composizione. Per l’artista, il punto è simbolo della staticità e del silenzio (individuando precise corrispondenze tra suoni, forme e colori), il cerchio quello della “quiete neutrale”, mentre la linea diagonale esprime tensione. Questo quadro, con la sua composizione di nitide geometrie, la cui precisione è stemperata appena dall’uso di uno sfondo irregolare e dall’alone sfumato intorno al cerchio, vuole rappresentare “l’armonia della diagonale”.

Gino Severini, Ritratto di Madame M.S., 1913-15

Nelle scelte del collezionista, la ricerca di modernità è testimoniata soprattutto dalle opere futuriste di Severini, Soffici e Balla. Questo pastello appartiene a una serie di ritratti dedicati alla signora Meyer-See, moglie di un noto gallerista londinese. Nelle sue memorie, Severini indica questi lavori come una delle prime applicazioni della teoria futurista al genere del ritratto. A differenza dei soggetti dinamici prediletti dall’artista, come le figure danzanti o gli scenari cittadini brulicanti di folla, la figura è ritratta in una posa statica. Il dinamismo sta tutto nel punto di vista molteplice, che scompone e moltiplica la figura in una visione prismatica come nei ritratti cubisti ma con un gusto per il colore vivace e brillante tipicamente futurista.

Ferrari 275 GTB

Meno nota di quella per l’arte, ma non per questo meno intensa, è la passione di Luigi Ferro per i motori, in particolare quelli delle auto d’epoca. L’imprenditore veronese ha collezionato alcuni splendidi esempi di design automobilistico, come una Lancia Aurelia B24 S degli anni Cinquanta e una Ferrari 275 GTB del 1966. Quest’ultima rappresenta un modello iconico di auto sportiva, disegnata da Pininfarina nel rispetto delle linee che contraddistinguono la produzione di Maranello degli anni Sessanta. Appartenuta inizialmente al produttore cinematografico Gino De Laurentis, viene poi regalata a Clint Eastwood che, nel 1967, recita in uno degli episodi del film Le streghe,

prodotto da De Laurentis. L‘attore americano la fa riverniciare di un originale verde smeraldo, rendendo quest’auto un prezioso pezzo unico.

Giacomo Balla, Velocità d’automobile (Velocità n. 1), (1913)

Tra 1913 e il 1914, Giacomo Balla realizza una serie di opere dedicate alla rappresentazione della velocità e del movimento meccanico dell’automobile, temi centrali per esprimere l’idea di dinamismo futurista. In primo piano si può osservare il moto circolare delle ruote dell’auto, mentre sullo sfondo si riconosce un’ambientazione architettonica con una serie di arcate.

Questi due piani sono collegati da linee di forza che si intersecano a formare dei triangoli, scandendo la progressione del movimento. In questo tipo di sequenza, debitrice alla fotodinamica dei fratelli Bragaglia, il flusso temporale viene scomposto in tanti frammenti.

Giorgio de Chirico, Due figure mitologiche (Nus antiques. Composizione mitologica), 1927

Le opere del padre della Metafisica rappresentano un altro nucleo di grande rilievo all’interno della Collezione L.F., delineando un territorio popolato da figure archetipiche, in cui la concretezza degli oggetti e le domande ultime sull’esistenza si incontrano. Come scrive il critico Waldemar George nella prefazione al catalogo di una mostra dell’artista a Parigi, nel 1927, “Il piano d’evoluzione di de Chirico è quello della speculazione mentale con vocaboli e segni d’un linguaggio convenzionale, ai quali il pittore conferisce un nuovo senso”.

I due Nudi antichi sono un esempio di questo linguaggio che riesce a creare nuovi e misteriosi rapporti tra le cose. Il quadro – probabilmente ispirato alle Libidini di Parrasio, pittore greco del V secolo a.C. – è ricco di citazioni dall’antico. Le due figure monumentali, costrette in uno spazio troppo piccolo, assomigliano a statue di marmo più che a donne in carne ed ossa.

Giorgio de Chirico, Mobili nella valle, 1927

Le opere di Giorgio de Chirico sono ricche di citazioni classiche ma le figure umane sono quasi sempre assenti, sostituite da manichini, statue o, come in questo caso, oggetti che divengono personaggi di una rappresentazione teatrale, disposti su un pavimento di legno che delimita lo spazio del palcoscenico.

I mobili di un salotto borghese sembrano essere giunti, come per magia, nel bel mezzo di un paesaggio che ricorda una valle dei templi della Magna Grecia. L’incongruenza di questo accostamento genera un senso di straniamento tipicamente metafisico, ma l’idea per questo dipinto, come afferma l’artista, gli viene suggerita dalla visione di alcuni mobili abbandonati in strada durante un trasloco. Da questo spunto, de Chirico trae una scena bizzarra, variazione di uno dei suoi temi prediletti: l’ambiguità tra ambiente esterno e interno.

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