Ersilia Sarrecchia | Alberto Zecchini – Nel Bosco e tra gli Alberi – Mostra a cura di Ivan Quaroni a Modena – LaranarossaGALLERY

Ersilia Sarrecchia | Alberto Zecchini

Nel Bosco e tra gli Alberi

a cura di Ivan Quaroni

26 aprile – 11 maggio 2025

Vernissage sabato 26 aprile dalle ore 18

Dal 26 aprile all’11 maggio 2025, la Melograno Art Gallery ospita la mostra “Nel Bosco e tra gli Alberi”, un progetto espositivo che vede protagonisti Ersilia Sarrecchia e Alberto Zecchini, due artisti uniti da una sensibilità profonda verso la natura e il paesaggio.

La mostra, curata da Ivan Quaroni, si snoda attraverso visioni personali e poetiche del mondo arboreo: un viaggio tra rami, foglie e silenzi, in cui la materia e l’anima degli alberi si trasformano in immagini cariche di suggestione.

Il vernissage è previsto per sabato 26 aprile dalle ore 18, un’occasione per incontrare gli artisti e immergersi fin da subito nell’atmosfera incantata del bosco.

Nel bosco e tra gli alberi

 di Ivan Quaroni

«Davanti a noi c’è una scelta cruciale, tra un postcapitalismo globalizzato e una lenta frammentazione che porta al primitivismo, alla crisi infinita e al collasso ecologico del pianeta.»

(Alex Williams, Nick Srnicek, Manifesto accelerazionista)

Il rapporto tra uomo e natura si è modificato nel corso della storia, costituendo una sorta di narrazione mobile, stratificata, soggetta a continui slittamenti semantici e percettivi. Il concetto stesso di natura si è modellato, nel tempo, sulla base di mitologie, saperi e sistemi simbolici. Nell’antichità, ad esempio, la natura era percepita come una forza animata, dotata di volontà autonoma, abitata da presenze divine e spiriti primordiali: basti pensare alla teofania vegetale di Pan, figura liminale e sfuggente, o alla sacralità dell’albero nelle culture tradizionali, elemento cosmico e insieme genealogico. 

Col passare dei secoli, la natura è stata progressivamente sottoposta a operazioni di addomesticamento. Soprattutto l’età moderna ha segnato una svolta radicale. Già in epoca premoderna, attraverso la lente della scienza e della tecnica l’uomo ha iniziato a misurare, catalogare e infine sfruttare l’ambiente secondo una logica produttiva e funzionale. Con l’avvento della rivoluzione industriale nel XIX secolo, il rapporto con la natura ha subito un’ulteriore torsione: essa ha cessato di essere interlocutrice simbolica dell’umano per diventare spazio operativo, risorsa da ottimizzare, superficie neutra su cui proiettare desideri di progresso e sviluppo. In questa nuova configurazione, il paesaggio perde la sua carica autonoma di senso, trasformandosi in sfondo passivo della narrazione antropocentrica, funzionale più agli obiettivi dell’economia che a quelli dell’immaginazione. Eppure, mentre l’idea di natura si razionalizzava e si piegava a esigenze produttive, la sua traduzione visiva in ambito artistico non sempre procedeva in modo parallelo o coerente. Gli artisti, in diversi momenti storici, hanno, infatti, messo in discussione la visione dominante, restituendo al paesaggio complessità emotiva, ambiguità percettiva e spessore simbolico. La rappresentazione artistica della natura non si è, quindi, limitata a seguire l’evoluzione del pensiero tecnico-scientifico, ma ha continuato a problematizzare la relazione con l’ambiente, spesso anticipando riflessioni che solo più tardi sarebbero emerse in un più ampio discorso culturale.

Oggi, mentre la crisi ecologica impone una revisione radicale delle categorie di pensiero, molti artisti sentono l’urgenza di tornare a interrogare il paesaggio, non solo come soggetto da riprodurre, ma come spazio critico, in cui si riflettono le tensioni economiche, identitarie, politiche di questo delicato momento storico. Non bastano più né l’ecologismo classico, né l’introduzione di concetti come la wilderness – termine che designa una porzione di territorio popolata di animali allo stato selvatico, in opposizione alle aree modificate dall’uomo – per fare fronte alle nefaste conseguenze dell’antropocentrismo sull’habitat naturale. Quello che serve, semmai, è un cambiamento di paradigma non tanto culturale, ma spirituale. Perfino Timothy Morton, voce autorevole nel dibattito odierno sui rapporti tra uomo e natura, sostiene come la dimensione spirituale sia l’unico vero salvagente per l’umanità. La religione, spiega il filosofo britannico, “è quella sensazione legata alla biologia, a prescindere da ciò che dice la scienza biologica o psicologica, non parla di una vita strana, non è contraria alla terra, non è al di fuori dell’universo, ma è dentro il nostro corpo”. 

Nel Bosco e tra gli Alberi, il progetto pittorico congiunto di Ersilia Sarrecchia e Alberto Zecchini giunge, in un certo senso, a conclusioni simili. Nel loro caso, infatti, non si tratta semplicemente di un ritorno alla pittura di paesaggio, né tantomeno di una celebrazione della natura come oggetto di contemplazione. Piuttosto, ciò che interessa ai due artisti è l’attraversamento, la soglia, la zona intermedia dove figura e ambiente non si oppongono, ma si compenetrano. La pittura diventa qui una pratica di immersione, di ascolto, di adesione sensibile alla materia organica del mondo. Questa fusione panica con l’ambiente naturale è resa, nei lavori di entrambi gli artisti, attraverso la rappresentazione di corpi immersi nella vegetazione, quasi fusi nella trama fitomorfa della foresta. 

Ersilia Sarrecchia, in particolare, lavora su corpi che si dissolvono nella trama vegetale, che non si impongono sul paesaggio, ma lo assorbono, come se la carne stessa partecipasse del ritmo segreto del sottobosco. Le sue figure adamitiche, anche quando dominano la scena, si offrono come presenze-permeabili, attraversate da fronde, rami, foglie e radici. In tutti gli altri dipinti, quelli in cui il soggetto umano è assente, quasi assorbito o divorato da organismi vegetali, dominano immani proliferazioni, germinazioni e infiorescenze che trasformano la materia in un magma indistinto di forme. È qui che la pittura di Sarrecchia lambisce esiti quasi astratti, innestando un’impronta gestuale e informale sulla sottostante struttura figurativa che appare, così, trasfigurata. 

Nei dipinti di Alberto Zecchini, invece, l’immagine sembra costruita per successivi apporti, stratificazioni segniche e cromatiche che seguono una procedura erratica, non prestabilita. 

Le sue immagini, infatti, affiorano per frammenti, come lacerti visivi che resistono a una chiara e immediata leggibilità, offrendosi come corpi puramente allusivi, privi di un’identità definita. La sua pittura, infatti, non illustra, ma suggerisce, attraverso la reiterazione di forme incerte e cangianti, l’esistenza di un mondo in cui uomo e natura fluiscono senza soluzione di continuità, come parti di un unico organismo vivente. 

Pur con linguaggi diversi, entrambi gli artisti rifiutano la dicotomia tra soggetto e ambiente. Le loro opere non rappresentano l’ambiente naturale, nel senso che non offrono una visione oggettiva del paesaggio, ma adottano una prospettiva organica e analogica, fatta di intrecci, slittamenti, trasformazioni. 

Il bosco, presenza ricorrente nei loro dipinti, diventa una zona di confine e attraversamento, dove si dissolvono le distinzioni tra umano e non umano. Sarrecchia e Zecchini ci offrono due distinte versioni di un universo poroso, permeabile, abitato da forme instabili, stratificate, plurali. Sarrecchia e Zecchini cercano, ognuno col proprio personale codice linguistico, di attivare nell’osservatore uno sguardo capace di riconoscere la natura non come un’entità separata da contemplare o salvare, ma come qualcosa con cui siamo intimamente intrecciati. La loro pittura, infatti, restituisce complessità a questa relazione, riportandola alla sua dimensione originaria, fatta di prossimità, di scambio, di coesistenza sensibile tra corpi, spazi, memorie e forme di vita differenti. È un’alleanza fragile e mutevole, che non pretende di ricomporre l’equilibrio perduto, ma introduce l’idea che uomo e natura condividano una dimensione comune, in cui ciascuna entità si ridefinisce nel contatto con l’altra. In questa tensione – mai del tutto risolta – la pittura s’inserisce come una forma di iperstizione, capace non solo di evocare mondi possibili, ma di attivarli, rendendoli operativi nello spazio dell’immaginazione. 

 

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