Andrea Nuovo Home Gallery – “Modalità: No Humans” inaugurata a Napoli

MODALITA’: NO HUMANS

a cura di Massimo Sgroi

01/10/2021 – 07/01/2022

Grande successo di pubblico alla Andrea Nuovo Home Gallery per l’opening di “Modalità: No Humans” inaugurata a Napoli nei giorni 1 e 2 Ottobre 2021 in via Monte di Dio, 61. A cura di Massimo Sgroi, nei due livelli espositivi espongono otto artisti internazionali: Güler Ates, Jean Michel Bihorel, Patrick Jacobs, Federica Limongelli, Suzanne Moxhay, Barbara Nati, Helene Pavlopoulou e Simon Reilly.

Con oltre 20 opere che vanno dalla figurazione all’astrazione, il progetto indaga lo status psichico dell’individuo in cui la tecnologia e l’innovazione favoriscono sì il progresso della società, ma allo stesso tempo mette in discussione la funzione del singolo, provocando così una sorta di svuotamento delle sue emozioni. Ciò comporta talvolta uno smarrimento del concetto di bellezza, condivisione e progresso, ma anche dell’ambiente urbano e naturale, quest’ultimo sempre più fragile e ribelle all’azione dell’uomo.

In tutto questo che senso ha ancora l’arte visuale? Ha, ancora, la potenza di svelare l’inganno o è, piuttosto, l’appiattimento formale sul corpo ibrido della visione estetica neoliberista?”, precisa il curatore Massimo Sgroi.

E aggiunge: “In questa mostra abbiamo piegato il codice linguistico e segnico, appunto, rendendolo funzionale al progetto che, come una Gestalt, va al di là della sommatoria delle singole opere. Il progetto che contiene, nelle scatole cinesi dell’evento l’una dentro l’altra, la narrazione, le funzione estetica percettiva visuale e la concettualità stessa delle opere; come un sistema strutturato come la codificazione onion del programma Tor (per usare l’onnipresente linguaggio cibernetico) lascia libero lo spettatore di scendere dentro le profondità installative della mostra stessa fino a percepire, da sé, la terribile condizione che mette il pianeta Terra nella modalità: No Humans”.

Ora astratti ora surreali, tra pittura, fotografia, diorami e dipinti digitali, ciascun artista affronta l’argomento con la propria tecnica tra ricordi e immaginazione per creare nuovi mondi e nuovi scenari. Vulnerabile alla globalizzazione, la figura dell’individuo è il focus della sala principale, per poi proseguire il percorso al piano superiore dello spazio espositivo, in cui il linguaggio concettuale perde completamente la figura umana per lasciare spazio a tutto il resto; dai colori decisi e impattanti si susseguono paesaggi metafisici da scoprire e su cui riflettere. Da qui, “Modalità: No Humans”.

In osservanza alle normative anti-Covid19, la mostra sarà visitabile secondo gli orari della home gallery fino al 7 Gennaio 2022.

SIMON REILLY

Nato a Dublino. Attraversa il confine per studiare arte all’Università di Belfast durante il nadir del conflitto in Irlanda del Nord. Per dieci anni è stato un outsider ma anche testimone di quotidiane violenze partigiane fino a trovare una via di uscita con un anno di residenza presso la British School di Roma. Per diversi anni, dipinse in Italia e in Grecia, poi si trasferisce a New York per lavorare principalmente in ambito cinematografico. Ed infine, a Los Angeles, in California, dove si dedica all’espressione con la quale si trova più a suo agio, la pittura ad olio su larga scala.Nel corso della sua carriera, Simon si è esibito a livello nazionale e internazionale, ricevendo numerose borse di studio e premi. Il suo lavoro va inteso come un’astrazione organica, allo stesso tempo gestuale e paesaggistica, dove ambienti botanici e costruiti veicolano superfici e dimensioni, quiescenza e dinamismo, un terreno pittorico accessibile ma sovrapposto a una volatilità iterativa. Tra le sue personali: Duality, David Cunningham Projects, San Francisco, CA; Nation Once Again, Geo Arte Contemporanea, Bari, Italia; Recent Works, Pantazidis Gallery, Atene, Grecia; Shame, Limerick City Art Gallery, Limerick, Irlanda; Anya von Gosseln Gallery, Dublino, Irlanda; Orchard Gallery, Derry, Irlanda del Nord, UK; New Works, Green on Red Gallery, Dublino, Irlanda; Paintings, Temple Bar Gallery, Dublino, Irlanda; Paintings, Arts Council Gallery, Belfast, Irlanda del Nord, UK; No-Thing, Kerlin Gallery, Belfast, Irlanda del Nord, UK. Tra le sue partecipazioni a mostre collettive: Artport: making waves, climate change film festival. Musee de la chasse La Nature; Horse Drawn: Contemporary Artists Study the Form, Gallery of Photography, Dublino, Irlanda; Green Screen Festival, Cool Stories, 1 Film Society of Lincoln Center, New York, NY; The Horse Show, RHA Gallery, Dublino, Irlanda, and touring Europe CINEMA PLANETA International Environmental Film Festival, Cuernavaca, Mexico; Highlights, David Cunningham Gallery, San Francisco, US e Festival de l’Image Environnementale, Paris, France. Tra i premi e le commissioni: Artists Fellowship Inc., Borsa di studio (2006); Arts Council of Ireland, Major Bursary (1999); Comitato per le relazioni culturali, borsa di studio del dipartimento estero, Ireland Arts Flight (1996); Arts Flight, Premio per i viaggi dell’Arts Council of Ireland (1995); Borsa di studio del Consiglio per le arti (1994). È presente in numerose pubblicazioni specializzate, come: Irish Arts Review, From a Distance, by Perry Ogden (2014); NY Arts magazine, Dec/Jan Edition (2009) e Start magazine, Spring Edition (2007). Le sue opere si trovano in collezioni private negli Stati Uniti, Inghilterra, Irlanda, Italia, Austria, Grecia, Svizzera e Indonesia.

FEDERICA LIMONGELLI

Nata a Novi Ligure (AL), Italia. Vive e lavora a Caserta, Italia. Si diploma al Liceo Artistico di Genova e poi all’Accademia di Belle Arti della città. Successivamente si laurea in Restauro Conservativo ed Estetico della pittura, presso l’Istituto d’Arte Antica di Genova. Nel 2006 ha conseguito la specializzazione in Tecniche dell’Incisione Calcografica presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino e, dallo stesso anno, è presente all’Albo Nazionale degli Incisori. Nel corso della sua attività ottiene diversi premi e collabora con diverse gallerie. Dal 2000 ad oggi ha tenuto mostre personali e collettive, sia in Italia che all’estero. Tra le più recenti: “L’architettura dell’arcobaleno”, Mac3 Museo Arte Contemporanea Città di Caserta, Caserta (2021); “+diVenire, dove inizia il nuovo esodo…”, Corciano Festival LVII Agosto Corcianese, Perugia (2021); Wordless al Mac3, Museo d’Arte Contemporanea di Caserta (2016); Trascorrenze – Massa Marittima, Grosseto (2017); Rifrazioni della Memoria a Palazzo Marigliano, Napoli; Labbr (o) ni (ri) ca, fantasiose frontiere alla Fortezza Vecchia di Livorno (2017); Immenso al Museo dell’Accademia di Belle Arti, Nola – Napoli (2018); The Passeggers alla Sala delle Esposizioni Fornace Falcone, Eboli – Salerno (2019). Con la sua installazione Wordless ha partecipato alla mostra Matronei, tenutasi negli Appartamenti Storici della Reggia di Caserta (2017); e con il dipinto Wordless ha partecipato al cortometraggio Schermi, prodotto e distribuito da Première Film Distribution. Ha preso parte, con la mostra The Passengers, alla VI Edizione del PAC, Porto d’Arte Contemporanea di Acciaroli – Salerno (2020). Ha partecipato a fiere e rassegne d’arte tra cui RomArt, Biennale d’Arte Contemporanea di Roma (2015); ArtProject Basel, Art Basel – Basilea (2017); Setup Contemporary Art Fair, Bologna (2018); Lucca Contemporary Art Fair, Lucca (2018). Nel 2012, con il suo lavoro, è entrata nella collezione Mac3, il Museo d’Arte Contemporanea della città di Caserta e in diverse altre collezioni private e pubbliche.

Federica Limongelli si inserisce nella vertente dell’arte dove il fattore sociale è parte centrale del proprio lavoro; l’artista rilegge, in particolare, la nuova forma di disagio della condizione femminile laddove, nella polverizzazione dei rapporti umani e sociali, la donna finisce per essere, ancora troppo spesso, vittima de pregiudizi sociali. La rappresentazione delle figure femminili spesso senza bocca o, comunque, mai visibili nella loro interezza è, metaforicamente, l’attestazione della nuova incomunicabilità fra i sessi nel mondo del terzo millennio. Incomunicabilità che, questa volta, non è soltanto fisica ma, spesso, passa anche attraverso il variegato mondo dei social network e, più in generale, della rete.

SUZANNE MOXHAY

Nata nel 1976, vive e lavora a Londra. Si è laureata alla Royal Academy Schools e ha esposto sia a livello nazionale che internazionale dal 2002. Il suo lavoro è conservato in molte importanti collezioni pubbliche e private tra cui la University of the Arts Collection, la Royal Academy of Arts, The Cooper Union New York, l’FSC, la Lodeveans Collection e l’Università di Oxford. È apparsa in numerose pubblicazioni tra cui The Guardian, Corriere della Sera, Liberation, The Wall Street Journal, A-N Magazine, Art World Magazine e Aesthetica ed è stata profilata e intervistata al BBC Culture Show. Le sue mostre includono “GSK Contemporary: Earth Art of a Changing World” e “Constructed Landscapes” presso la Royal Academy of Arts, “Saatchi’s New Sensations/The Future Can Wait” presso Victoria House, Londra e “Human Made Things” presso Aspex Gallery, Portsmouth e ‘Modell-Naturen’ che hanno girato gallerie pubbliche in Germania per tutto il 2019. Ha realizzato tre stampe commissionate dalla Royal Academy of Arts. Selezione di mostre personali: Tableaux Vivants Galerie G, La Garde, Provenza, Francia (2020); Conservatory James Freeman Gallery, Londra; Expanse RCB Photographers Gallery, 1PROJECTS / Photo Bangkok, Bangkok (2019); Tableau Vivant Anderson Gallery, Bridgewater State University, MA, USA (2017); Selected Works START with The LOFT at Lower Parel, Saatchi Gallery, Londra; Tableau Vivant Anima-Mundi Gallery, St Ives, Cornwall, UK (2016); Finta Realta TEN Gallery, Milano (2014). Premi: Print Commission- Royal Academy of Arts (RA Schools 250) (2019); Print Commission- Royal Academy of Arts (Edizioni RA) (2015); BNL Finalista Premio BNP Paribas Group (MIA, Milano); Kids of Dada Up and Coming Award (vincitore congiunto) (2014); Print Commission- Royal Academy of Arts (Edizioni RA) 2011; Premio FSA per lavori ambiziosi (2006).

Suzanne Moxhay crea un lavoro nel quale i confini tra fotografia e pittura vengono offuscati. Combinando il letteralismo della fotografia con le qualità più ineffabili della pittura, le sue misteriose stampe digitali creano spazi atmosferici che sono allo stesso tempo del tutto familiari e assolutamente strani. Le origini ovviamente fotografiche delle sue opere suggeriscono uno spazio reale, ma poi ci perdiamo in zone dipinte che appiattiscono la prospettiva e ci obbligano a librarci tra due e tre dimensioni. Mentre esploriamo le stanze silenziose di Moxhay rimaniamo costantemente sorpresi: le ombre cadono nella direzione sbagliata, le fotografie di falene vere volano nell’aria evocate dalla pittura, e ciò che inizialmente sembra espansivo diventa improvvisamente superficiale” (Richard Davey).

JEAN-MICHEL BIHOREL

Nato in Francia nel 1988, dopo aver terminato gli studi in una scuola di animazione in Francia, dal 2008 realizza immagini create digitalmente. Ha lavorato per film, lungometraggi, spot pubblicitari e marchi importanti, realizzando effetti speciali e animazioni 3D. Dal 2016 si dedica completamente alla produzione artistica personale. Figlio di due artisti che utilizzano supporti tradizionali, è sempre stato legato alla bellezza della materia, al gesto e più in generale a un certo realismo figurativo nell’arte ma appartenente alla generazione digitale, abbraccia pienamente questo mezzo di potenziale infinito che offre una completa libertà di espressione. Tuttavia, si assicura sempre che la natura digitale delle sue opere non sia ciò che le caratterizza in primo luogo. Nel processo di creazione o meglio, di costruzione di un’immagine 3D sono coinvolti infiniti passaggi, oltre a padroneggiare gli aspetti tecnici del mezzo digitale, l’artista deve avere una visione chiara di ciò che si propone di ottenere. Inoltre, laddove gli artisti più tradizionali cercano di ottenere un perfetto controllo sulla realtà, un artista digitale combatte contro la perfezione digitale delle immagini 3D, aggiungendo sempre alcune imperfezioni per avvicinarsi a ciò che rende un soggetto reale e profondo. L’approccio artistico di Jean Michel lo porta ad ancorare le sue immagini a una forma di realismo visivo. Egli aspira a creare un collegamento tra il mezzo contemporaneo e il know-how tradizionale con cui è stato educato Cerca di riprodurre l’aspetto, le caratteristiche e i materiali tradizionali per dare plausibilità visiva ai soggetti onirici. Implica anche il rapporto con la luce per esaltare la percezione dei volumi e le diverse proprietà del materiale per renderli quasi afferrabili. Sebbene siano virtuali, i suoi soggetti hanno sempre un’estetica che si potrebbe definire classica. Con le sue opere, Jean-Michel Bihorel si bilancia su una linea sottile tra classico e soprannaturale. Tra le sue ultime presentazioni, premi e progetti: “pending because of covid-19”, Winter Sleep parte della mostra collettiva denominate “Art of 3D Graphics” nel State Russian Museum / Marble Palace – St Petersburg, Russia (2021); “Strange Universe” progetto con cui ottine il primo premio ex aequo con Patrice Louise al concorso “Razer”; partecipa a “Ars Machina Exhibition”alla Metcalf Gallery, Indiana, Stati Uniti. (2020); “Flower Figures N02” e il suo video fanno parte di una mostra collettiva al Museo delle Arti Decorative di Namur, Belgio; progetta la copertina dell’album per la band “Caravan Palace / Chronologic” (2019).

BARBARA NATI

Nata a Roma il 15 Agosto 1980. Vive e lavora tra Gran Bretagna e Italia. Ha preso lezioni alla Parson School of Design di New York. Da allora ha stabilito una reputazione a livello internazionale per le sue complesse composizioni ibride. Ha vinto il premio John Hurt Art Prize, Norfolk, UK; il Premio per l’acquisto della collezione The Ingram a Londra; ha vinto la sezione People’s Choice del Bridgeman Studio Award, Londra; l’Ashurst Art Prize Employee’s choice award, Londra 2015; il Premio Andrea Mantegna a Mantova nel 2014 ed il Premio Arte Rinascimentale dell’Istituto Italiano di Cultura di Londra nel 2010. Ha esposto in diverse fiere d’arte tra cui MIA Milan Image Fair; Asia Contemporary Hong Kong; Art Verona; Peckham International Art Fair e in The Other Art Fair a Londra. Ha partecipato a residenze d’artista presso European Artists a Olofström, Svezia nel 2013 e Digital Arts Studios a Belfast nel 2009. Tra le personali e i progetti recenti: Barbara Nati solo show, Colorida galeria de arte, Lisbona, Portogallo; Pixel Kingdom (opera realizzata dal vivo) MACRO Museo d’arte contemporanea di Roma; ISe il presente non basta, Museo Civico Palazzo Penna, Perugia, Italia; Countless Tomorrows, (a cura di Gaia Conti), Andrea Ingenito Contemporary Art, Milano; Alla deriva (a cura di Camilla Mineo), Ospedale Vecchio, Festival Parma360 (2018); In agguato dietro all’idillio, Casa d’Arte La Barbagianna, Pontassieve (FI); Upcoming memories (a cura di Vanessa J Brady), 10GS Mayfair, Londra (2015); Gravitas, Barbara Nati – Matteo Pugliese, Artribù Art House, Roma; A journey through illusion, CueB gallery, Londra (2014); Unpredictable trees (a cura di Massimo Sgroi), The Format Contemporary, Milano (2013); Le città promesse (a cura di Maria Cristina Strati), Marena Rooms Galley, Torino (2011). Selezione collettive recenti: Out of the wild, The CAMP Gallery, Miami; Victoria Place Art Project: Open House, The Lighbox Galleries, Woking; Nature and the artifice, CAMP gallery, Miami; Intimists, LaFenice Art Gallery, Hong Kong; London Group Open, The Cello Factory, Londra; Tomorrow’s world, Atom Gallery, Londra; Editioned, Store Street Gallery, Londra; Merge Visible. A focus on digital collage, Mall Galleries, Londra; Candido, ovvero il migliore dei mondi possibili, Alidem showroom, Milano; Columbia Threadneedle Prize, Londra; Thirty4Thirty, Mostra opere finaliste, National Theatre, Londra; This is Contemporary, Fondazione Bartoli Felter, Cagliari; L’Arte per l’Articolo 9, Istallazione colletiva Permanente, Ex Cartiera latina, Parco dell’Appia antica; The wisdom of escape, Nancy Victor Gallery, Londra; Weird and wonderful, CueB Gallery, London; Il fantastico Differente, Art&Co gallerie, Parma.

GÜLER ATES

Nata nel 1977 a Muş, nella Turchia orientale, vive e lavora nel Regno Unito. Si è laureata nel 2008 al Royal College of Art con un Master in Fine Art. Attualmente è Digital Print Tutor presso le Royal Academy Schools.

Il lavoro multidisciplinare di Güler Ates comprende video, fotografia, stampa e performance, attraverso i quali esplora la sua esperienza di identità, diaspora e spostamento culturale. Le sue opere si trovano nella Government Art Collection del Regno Unito, al Victoria & Albert Museum, alla Royal Academy of Arts e alla Ben Uri Gallery & Museum di Londra, all’Oude Kerk, al Museo della fotografia Huis Marseille e al Museo Van Loon di Amsterdam, al Museu de Arte do Rio (MAR) di Rio de Janeiro e il Museo d’Arte Orientale di Torino.

Ates ha realizzato mostre personali al Museo d’Arte Orientale, Torino nel 2019/20; al Museum Van Loon, Amsterdam nel 2017; al Unseen Photo Festival, Amsterdam e Salvation Army International HQ, Londra nel 2016; alla House of St Barnabas and Art First, Londra e Spazio Nea, Napoli nel 2015; presso Marcelle Joseph Projects, Londra, Warmond Castle, Amsterdam (con Marian Cramer Projects), Instituto Inclusartiz, Rio de Janiero e Kubikgallery, Porto nel 2014; presso Marian Cramer Projects, Amsterdam e la Royal Academy of Arts’ Café Gallery, Londra nel 2013; a The Loft, Lower Parel, Mumbai, Art First, Londra, e Marian Cramer Projects, Amsterdam nel 2012; a Great Fosters, Egham, Regno Unito nel 2011; e al Leighton House Museum, Londra e alla Gallery Point-1, Okinawa, Giappone nel 2010.

Il lavoro di Ates è stato incluso nella mostra estiva della Royal Academy of Arts per diversi anni. Ha partecipato a numerose mostre collettive tra cui Absent Authors presso APT Gallery, Londra nel 2021; Migrations: masterworks from the Ben Uri Collection del Museo di Gloucester nel 2019-20; Unexpected: Continuing Narratives of Identity and Migration alla Ben Uri Gallery & Museum, Londra nel 2016; Journey al Jewish Museum, Londra nel 2015; Some Schools are Cages and Some Schools are Wings al Museu de Arte do Rio (MAR), Rio de Janeiro nel 2014; 2Q13: Women Collectors, Women Artists al Lloyds Club, Londra nel 2013 e alla 3a Biennale Internazionale di Canakkale, Turchia nel 2012.

Ates ha partecipato nelle residenze all’ArtSite Fest, Torino nel 2018; Eton College, Windsor nel 2015; Instituto Inclusartiz, Rio de Janeiro nel 2013-14; Art Suites, Bodrum, Turchia nel 2014; Space 118 e The Loft al Lower Parel, Mumbai e Rajasthan nel 2012 e 2009 e Cite Internationale Des Arts, Parigi nel 2007.

PATRICK JACOBS

Nato nel 1971, si è laurearo in Belle Arti con specializzazione in scultura alla School of the Art Institute of Chicago nel 1999.

Il lavoro di Patrick Jacobs abbraccia una vasta gamma di discipline tra cui scultura, installazione e incisione. Il paesaggio e il mondo naturale forniscono sia l’ambientazione che l’argomento per questioni che riguardano il corpo, il desiderio e l’identità in modi spesso ambigui o poetici.

Il suo lavoro è stato oggetto di numerose mostre personali, tra le più recenti: “Nocturnes” alla Pierogi Gallery, New York City (2020), The Pool NYC, Milano, Italia, e al Kansas City Art Institute, Kansas City, MO (2019); Come Closer to Me, Pierogi, Brooklyn, NY; Pink Autumn, The Art Gallery, University of West Florida, Pensacola, FL (2015); Patrick Jacobs, Exchiesetta, Polignano a Mare, Italia (2014); Patrick Jacobs: Telescopic Vistas, Zadok Gallery, Art Miami Context, Miami, FL; Interiors: From Within Outward, The Pool NYC, Volta NYC, New York, NY (2012); Familiar Terrain, Patrick Jacobs, Pierogi, Brooklyn, NY (2011); Dioramas, Patrick Jacobs, The Pool NYC, Moretti Fine Art, Londra, Regno Unito (2010); Patrick Jacobs, Fundacia “La Caixa” (9th Cycle of Interventions at the Vestibule; Transport to Summer) curate da Chris Gilbert & Cira Pascual Marquina, Lleida, Spagna (2005); Celebrity Appearance/Cancelled Show, Pierogi, Brooklyn, NY (2003).

Importanti sono anche le sue partecipazioni a mostre collettive, tra cui: The Origins Of The Modern Landscape, 1820–2020: A Contemporary Perspective, a cura di Jovana Stokic, PhD, Jill Newhouse Gallery, The Art Show, Park Avenue Armory, New York, NY (2020); A Walk in the Woods, Crystal Bridges Museum of American Art, Bentonville, AR; Mind’s Eye, Pierogi, New York, NY; Hey Look Us Over!, Bernice Steinbaum Gallery, Miami, FL; Notturno Piú, The Pool NYC, Venezia, Italia; Aera Synthetica, Surveying New Nature – A Markus Haala Project, University Gallery, University of Massachusetts, Lowell, MA; Invitational Exhibition of Visual Arts, American Academy of Arts and Letters, New York, NY (2019).

Le sue opere sono presenti nelle collezioni permanenti del Pérez Art Museum (Miami, FL), del Museum of Arts and Design (NY, NY), del Crystal Bridges Museum of American Art (Bentonville, AK), del Portland Museum of Art (Portland, ME), Colección SOLO (Madrid, Spagna), e numerose importanti collezioni private. Ha ricevuto premi e residenze dalla Pollock-Krasner Foundation, dal Kansas City Art Institute, dalla MacDowell Colony, dalla New York Foundation for the Arts e da Bad Wiessee. Jacobs vive e lavora a Brooklyn, New York.

HELENA PAVLOPOULOU

Nata in Grecia nel 1974. Ha studiato pittura con Dimitris Mytaras. Si è laureata in incisione presso la Scuola di Belle Arti di Atene con una borsa di studio della State Scholarship Foundation dal 1992-97. Ha conseguito un Master in Arts alla Scuola di Belle Arti di Atene con una borsa di studio post-laurea della State Scholarship Foundation per gli anni 2003-04, con Tassos Christakis come suo professore.

Ha tenuto mostre personali ad Atene a cura di : Manos Stefanidis, Dora Iliopoulou-Rogan, Eleni Gatsa ; a Parigi a cura di : Syrago Tsiara e Thalia Vrachopoulos ; a Costantinopoli e a Bruxelles, a cura dello scrittore spagnolo ellenista Pedro Olalla. Alcune delle mostre personali: Rebelious Palinsesto, Salonicco, 2020; Veritas Regained, Nicosia, 2018; Dithyrambs Of Liberty, Paris e Blue Riders, Atene, 2017; Etereo, Chania, 2015; Les Adieux, L’absence, Le Retour, Istanbul e Aurea, sotto gli auspici della Presidenza greca del Consiglio dell’UE, Bruxelles, 2014; Les Adieux, L’absence, Le Retour, Atene, 2013; Nymphes, Parigi, 2011; Odes And Elegies To Unsung Brides, Larissa, 2009; Emigrantes Del Amor, Atene, 2008; Ark II, Paros, 2005; Ark, Atene, 2004; Archetypal Landscapes, Atene, 2001.

Ha preso parte a numerose mostre collettive in Europa, USA e Asia, tra le più importanti: nel Museo di Arte Contemporanea di Salonicco, al Museo Frissiras di Atene, al Museo Katsigras e alla Galleria Nazionale di Atene. Nel 2019 ha partecipato alla Biennale Internazionale di Trieste e in “The Looking Glass and Through it” in The Museum of St. Petersburg Art, 2020-21. Nel 2017 ha partecipato alla Biennale “The Body, The Soul and the Place” di Pechino presso il National Art Museum of China invitata dallo State Museum of Contemporary Art di Salonicco, a cura di Maria Tsantsanoglou e Syrago Tsiara. Nel 2016 ha avuto la sua prima presentazione a New York nell’ambito della mostra ”Woman, Mother, Daughter, Wife, Friend…” alla President’s Gallery, Jay College di New York su invito dalla storica dell’arte e curatrice Thalia Vrachopoulos e, nel 2012, ’The Right to Breath’’ alla Shiva Gallery, NY.

Ha inoltre partecipato a numerose Fiere d’Arte, tra le più importanti: Inter alia; London Art, Art Busan in Corea, Art Athina, Art Istanbul tra gli altri.

Le opere di Helene Pavlopoulou si trovano in collezioni private e pubbliche, come la Collezione d’arte della Banca Nazionale di Grecia, il Gruppo della Banca del Pireo, il Museo della famiglia Copelouzos, il Museo Frissiras, il Museo statale di Salonicco di Arte Contemporanea ed altre collezioni in Europa e USA.

Scheda mostra collettiva

Modalità: No Humans

A cura di Massimo Sgroi

Artisti: Güler Ates, Jean Michel Bihorel, Patrick Jacobs, Federica Limongelli, Suzanne Moxhay, Barbara Nati, Helene Pavlopoulou e Simon Reilly.

Durata: 01/10/2021 – 07/01/2022

Testo Critico e il racconto Il viaggio di Shundine a cura di Massimo Sgroi

Photo credit: Opening mostra “Modalità: No Humans”, Andrea Nuovo Home Gallery, 2021. Ph. Roberto Della Noce

Andrea Nuovo Home Gallery

Via Monte di Dio, 61, 80132 – Napoli

Tel. +39 081-18638995

www.andreanuovo.com/info@andreanuovo.com

#andreanuovohomegallery #modalitànohumans

Orari: martedì – venerdì, ore 10:00 – 13:15 e 16:15 – 19:00

Sabato, domenica e lunedì su appuntamento / Ingresso Libero

Ufficio Stampa: Fabio Pariante – fabiopariante@gmail.com |

MODALITA’: NO HUMANS

A cura di Massimo Sgroi

Quando la visone immaginifica del futuro si ribalta sul progetto a brevissimo termine, l’angoscia psichica dell’umano del terzo millennio prende il sopravvento sulla retorica della Bellezza. Più che salvare il mondo essa diventa estroflesso paesaggio del vuoto dell’anima sedimentando angosciosi strati della previsione della catastrofe, ciò che porterà il pianeta alla modalità No Humans.

Paradossalmente in un mondo dominato dal web l’umano perde la capacità di pensare in termini collettivi isolandosi nel pensiero individuale nell’attesa del punto di non ritorno. La sublimazione del desiderio non si manifesta più in termini attrattivi o come assecondamento della pulsione erotica, essa diventa piuttosto distruttiva, violenta, aggressiva e prigioniera (vedi il problema pandemico, ad esempio) di regole precodificate da altri. E la coscienza etica diventa aggressione verso l’avversario.

Nell’equivoco di fondo che si crea in una simile condizione sociale, l’ambiente, la problematica della protezione del nostro ecosistema diventa “altro da noi” quando, al contrario, è parte integrante della nostra stessa esistenza; come il bambino sopravvive grazie al sacco amniotico materno, allo stesso modo l’essere umano esiste in quanto simbionte dell’intero sistema che lo circonda. Come sosteneva Jean Baudrillard, già molto tempo fa: “Il peggio non è che siamo sommersi dai rifiuti della concentrazione industriale e urbana bensì che noi stessi siamo trasformati in residuati”. La specie umana, mirando all’immortalità virtuale (tecnica) sta perdendo la sua particolare immunità”.

In tutto questo siamo tutti consumatori schizofrenici di merce, di status symbol pagati attraverso il caro prezzo della distruzione ambientale; il liberismo selvaggio si nutre di estetica, feticcio malata dalla ridondante necessità di creare nuovi simulacri di potere. Bisognerebbe smetterla di essere ologrammi di noi stessi sacrificati sull’altare di una scienza solo fintamente positiva e che prevede la visione reversibile della dicotomia causa/effetto.

In tutto questo che senso ha ancora l’arte visuale? Ha, ancora, la potenza di svelare l’inganno o è, piuttosto, l’appiattimento formale sul corpo ibrido della visione estetica neoliberista? Cioè, per tornare al Delitto perfetto del filosofo francese: se la realtà è accelerata dalla tecnologia, che la spinge verso le sue più estreme e paradossali conseguenze, allora il pensiero deve essere più veloce e più paradossale della realtà stessa. Detto con le sue parole: “Bisogna prendere in trappola la realtà, bisogna essere più veloci di lei”. Ma l’arte, oggi (per lo meno nella sua parte di sistema) altro non è che l’estensione visuale e formale dell’immanente sistema finanziario; essa ne assume le forme producendo la merce feticcio (spesso copertura per il riciclaggio e la creazione di fondi neri) figlia barocca del cosiddetto “capitalismo perfetto” (di cui parla Karl Marx nel terzo libro del Capitale) ovvero quella che produce denaro senza generare né merce né cultura ma solo simulacri auto riproducenti.

Nel mondo sottoposto alla oscura teosofia del denaro (ovvero fine a se stessa) di questa forma di società globalizzata l’artista può essere ancora un detonatore di un accadere che rompa questa geometria dell’assioma teratologico del pianeta o, almeno, come sostiene Gerhard Richter, a consolare? La risposta è sì, a patto che essa viva e si produca al di fuori delle rigide regole del sistema. Sono le cosiddette “isole di libertà” in cui è ancora possibile essere radicali rispetto alla immanente egemonia economica culturale. L’arte riscrive i suoi segni, le sue strutture linguistiche spesso in maniera inconsapevole ma, non per questo, meno potente.

In questa mostra abbiamo piegato il codice linguistico e segnico, appunto, rendendolo funzionale al progetto che, come una Gestalt, va al di là della sommatoria delle singole opere. Il progetto che contiene, nelle scatole cinesi dell’evento l’una dentro l’altra, la narrazione, le funzione estetica percettiva visuale e la concettualità stessa delle opere; come un sistema strutturato come la codificazione onion del programma Tor (per usare l’onnipresente linguaggio cibernetico) lascia libero lo spettatore di scendere dentro le profondità installative della mostra stessa fino a percepire, da sé, la terribile condizione che mette il pianeta Terra nella modalità: No Humans.

E, così la trasgressione paradigmatica dell’accumulo di memorie di Helene Pavlopoulou rappresenta l’attualizzazione del mito della Caverna di Platone; la metafora delle ombre di realtà rilegge la nostra memoria appiattendola sulla parete del virtuale. Come sulle pareti della caverna di Platone, l’opera della Pavlopoulou è solo la rappresentazione del reale; attraverso un cromatismo inverso l’artista greca sovrappone il reale al virtuale, la materia all’impalpabile. La dea Mnemosyne torna a ri-velare il suo volto cancellando, forse per sempre, l’assioma comune del ricordo come a significare che non esiste memoria se non c’è nessuno a ricordare.

Ma se è vero che tutto ciò che è solido è destinato a svanire nell’aria, allora il corpo dell’umano, il volto, lo sguardo ed il pensiero stesso si trasformano in fantasmi evanescenti come nel lavoro di Federica Limongelli. Una sottrazione, attraverso la sua pittura elettronica, dell’accumulo di realtà che è il vero presupposto alla sparizione dell’umano. Umano che attraversa, nella sua sostanza fantasmatica, i luoghi in cui la specie morente ha costruito la sua magnificenza; è il corpo che invade il paesaggio e non il contrario.

Ed allora l’appartenenza fisica viene soppiantata dalla complessità multimedialica dei mondi elettronici attraverso i quali non abbiamo più identità, siamo, semplicemente e completamente extracorporei ed extraterritoriali. Güler Ates costruisce così i suoi eidola colorati, simulacri di una esistenza ormai persi nella struggente risposta di una uscita dal mondo. Nella mistica della visione contemporanea, l’esistenza stessa di un messaggio e di un codice che lo rappresenta implica l’esistenza stessa di un codificatore che altri non è che l’artista turca stessa. Güler Ates, partendo dalle architetture, finisce per essere costruttrice di mondi.

Ed è da questa uscita dagli spazi che nasce il mondo pacificato nell’ambiente naturale di Suzanne Moxhay, laddove le tracce dell’umano vengono lentamente cancellate dal processo di sostituzione. Lo stesso riferimento ad una pittura arcadica dell’artista inglese, ne identifica la necessità paradossale che per abolire la schiavitù dell’umano dalle pulsioni teratologiche sia obbligatorio cancellare l’umanità stessa. E se è vero che la logica degli umani, nel suo spostarsi di continuo verso le alterità tecnologiche, ha assunto un atteggiamento distruttivo verso ciò che è memoria ed ambiente naturale, essa non può che presupporre una definitiva pacificazione attraverso la sua assenza.

È questo il presupposto per garantire la sopravvivenza del pianeta laddove il gigantismo delle forme diventa tragitto surreale verso la definitiva riappropriazione del  come avviene nelle opere di Barbara Nati. L’eccesso irreale delle forme naturali che seppelliscono sotto la sovrabbondanza di forme le poche tracce rimaste; è il compimento della teoria della sparizione dove l’umano non sparisce sotto un eccesso di realtà elettroniche ma, piuttosto, verso una realtà aumentata della stessa natura. Il media landscape delle immagini della Nati si trasforma nel concetto heideggeriano dell’abitare il mondo laddove le tracce e non più la presenza ne rappresentano i simulacri del suo passaggio.

Questa sintesi formale è, allora, premessa per il progetto di Jean Michel Bihorel; nel suo lavoro gli elementi naturali non muoiono, si gonfiano, piuttosto, fino all’eccesso spiazzando le relazioni visive fra l’arte del reale e l’estensione che il digitale consente. Ciò che appare, alla fine, è una super realtà possibile in cui il grande programmatore finisce per essere la Natura stessa. Nell’opera di Bihorel tutti i media finiscono per essere funzionali ad un progetto surreale in cui la concezione omocentrica finisce sepolta sotto la cornice infranta del pensiero come forma definita.

Natura che, all’estremo limite finisce per trasformarsi in un groviglio mutante di elementi astratti come nel lavoro di Simon Reilly. La forma trascende se stessa, si aggroviglia cancellando completamente la premessa formale dell’umano, il ciclo diventa completo, la struttura si polverizza e nel farlo crea le condizioni per una nuova palingenesi figlia di un’entropia assoluta del pianeta. La funzione corporea si perde, quasi dissolvendosi, all’interno dell’elemento naturale proprio attraverso i cromatismi che lo richiamano. E l’immaterialità della visione è l’elemento centrale della dissoluzione.

Reilly diventa la necessaria premessa, allora, al lavoro di Patrick Jacobs; le installazioni dell’artista americano sono delle aperture verso i mondi dell’alterità, laddove forma estetica e struttura formale del paesaggio si trasformano in ricerca estetica dal valore metafisico. L’essere al centro di questa nuova funzione estetica significa identificare il luogo, inteso come landscape dell’alterità, come detonatore dell’accadere artistico, rendendolo relazionale alla mutazione della visione. Reale e più del reale che, attraverso l’entropia del sistema natura, diventano ricerca di Bellezza, quella funzione estetica che a noi, imprigionati sulla superficie del pianeta, viene quasi sempre fisicamente negata ma che è possibile nel mondo del sogno. Perché, in fondo, noi siamo e restiamo dreamers.

Nella condizione di consapevole ibridazione della natura l’umano, quindi, sceglie la presunzione di essere creatore egli stesso, manipolando la terra e gli esseri che ci vivono; questa follia degenerativa si rappresenta, simbolicamente, nel mulo, l’animale che l’uomo crea e che, senza l’intervento umano, non sopravviverà non potendosi, infatti, riprodurre. Il mulo diventa, allora, la metafora della nostra stessa esistenza ridelegando all’umano la scelta di far continuare a vivere il pianeta o di distruggerlo del tutto. Una assunzione di responsabilità prima che la natura stessa rifiuti definitivamente quello che lo scrittore americano Philip Dick definiva: “Fragile, bipede, senziente e parassita del pianeta Terra”.

Massimo Sgroi

Il viaggio di Shundine

A cura di Massimo Sgroi

Shundine dormiva. E nello scivolare nel sonno aveva assunto una posizione che ricordava L’assassinio di Marat, di David, uno dei quadri che preferiva fra le migliaia che conosceva a memoria. Sebbene vivesse in Europa da tanti anni, il Bisonte Bianco continuava a parlarle della sua ascendenza Navajo ed il sogno del Mondo le mostrava un ecosistema esistente al di là degli oscuri assiomi teratologici della vita reale. Sul parquet di legno di rovere chiaro era scivolato un romanzo che profetizzava un futuro prossimo dalle tinte oscure; la mano sfiorava il libro accarezzandolo inconsapevole. William Gibson non era fatto per conciliare il sonno.

Per uno strano caso del destino era volata in un ricordo malinconico della sua vita di bambina; la radura era piena di sole ed i grattacieli, che pure erano tutt’altro che trascurabili e che si trovavano a poche centinaia di metri erano invisibili. Nelle sue memorie di bambina era una delle cose che la aveva resa più felice. Gli era sembrato di vivere in una assoluta simbiosi con la natura; lei era parte della luce e degli alberi ed essi erano parte del suo essere. Aprì gli occhi di scatto, tutto era troppo armonico nei suoni ma non riusciva ad avvertire le note stonate che noi umani siamo capaci di produrre in qualsiasi parte del mondo. La troppa bellezza, a volte, fa paura.

Tutto era troppo perfetto, apparteneva più al sogno che non alla vita reale; persino i chiassosi vicini tacevano. Scese lentamente le scale. Per antica abitudine non prendeva quasi mai l’ascensore; preferiva, da sempre, contare i gradini il cui numero conosceva a memoria. In fondo l’esistenza è fatta anche da queste piccole, innocenti manie. Poche decine di metri dopo la sua nuova casa la strada presentava una biforcazione; da un lato il paese, dall’altro un ponte che scavalcava l’ossessiva marcia delle auto sull’autostrada; un lungo nastro di cemento che collegava le città della nebbia con quelle più abituate alla rumorosa vita fuori dalle case.

Superato il fiume della moderna follia la strada si restringeva diventando una tranquilla via di campagna. Via del Silenzio, appunto. Ci volle un centinaio di metri per capire; nessuna macchina aveva attraversato il serpente di cemento. Alzò la testa. Il grosso animale bianco come solo gli albini sanno essere la osservava e, quando parlò, lei si diede uno schiaffo e scoprì che sogno non era. Se da tutte le lacrime che cadono sulla terra fosse nato un fiore il mondo sarebbe stato un infinito campo colorato.

La sua discendenza Navajo la salvò; aveva imparato dal nonno che spesso i misteri non sono poi tali. Io sono la terra stessa –  continuò l’animale – io vi ho creato ed io vi ho cancellato. Per troppo tempo vi ho concesso di distruggere la Natura e la sublime armonia che la attraversava. Ora basta. E prima che la tua specie avesse finito di creare danni irreparabili ho restituito a me stessa la Bellezza. Ora tu, ultima donna, vedrai per tutti.

Il battito del cuore era talmente forte che Shundine lo sentiva fisicamente e, prima che pensasse di essere pazza, l’animale si voltò lasciandola sola. Si inoltrò nelle strade del paese, tutto era come doveva essere, mancavano solo gli esseri umani. Persino le auto erano ferme per strada con le chiavi inserite. Ne prese una e raggiunse la grande città che distava poche decine di chilometri; niente. Tutto era uguale, tutto era vivo e senza umani.

Per prima comiciò a sparire la memoria. I detriti architettonici greci, romani, egiziani, rinascimentali persero di colpo senso; come diceva un koan zen: se un albero cade nella foresta e nessuno lo vede non è mai caduto. Poi immaginò i corpi che diventavano sempre più evanescenti passando dalla condizione fisica alla dissoluzione nell’aria. Si vide come un fantasma coperto da stoffe colorate che attraversava da sola i luoghi della Bellezza umana; non avevano prodotto solo distruzione e, questo, le provocò una fitta al cuore. Il tempo passò.

Il mondo vegetale riprese possesso del suo armonico equilibrio; un uccello selvatico attraversava una finestra quasi completamente corrosa dall’edera. Architetture di alberi intrecciati richiamavano il delirio di un architetto folle ed il gigantismo degli alberi morti sovrastava la formazione delle sterminate foreste che tornavano a ricoprire il pianeta. Fino a che tutto sparì sepolto sotto un entropico intrico inestricabile.

Time goes by, canticchiò nella sua testa mentre la musica la portava verso una formazione innaturale nella sua geometria e, poco prima che il tempo della sua vita finisse ritrovò la radura dei sogni di bambina. Due finestre circolari si aprivano al centro; guardando al di là vide i mondi del possibile. La Madre aveva considerato di dare un’altra possibilità alla sua specie. Shundine pianse e dalle lacrime che caddero sulla terra nacquero fiori colorati. La sua domanda era diventata la definitiva risposta.

Massimo Sgroi

2021