GIUSEPPE FRANCALANZA – JACOPO RISALITI – VIRTATI L’HA NEL FOHO – Studio la Linea Verticale 

INAUGURAZIONE

VIRTATI L’HA NEL FOHO

GIUSEPPE FRANCALANZA – JACOPO RISALITI

TESTI CRITICI DI:

LUCREZIA ERCOLI – MAURA POZZATI

Studio la Linea Verticale 

Dal 15.06 al 15.07 2023
Vernissage 15.06 ore 18-21
Inaugurazione Opentour 22.06 ore 15-23
Bologna – Via dell’Oro 4B

In occasione dell’iniziativa Open Tour 2023, in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Bologna, la galleria Studio la Linea Verticale presenta la bipersonale Virtati l’ha nel foho, arricchita dai testi critici delle docenti Lucrezia Ercoli e Maura Pozzati.

Il fuoco è identificato nella mostra come simbolo del lavoro da parte dell’energia, in greco, infatti, energheia significa “al lavoro – in opera – in azione”, ed è eletto ad elemento di congiunzione tra i due giovani artisti in mostra: Giuseppe Francalanza (Modica, 2000) e Jacopo Risaliti (Prato, 2001).

Quest’energia, intrinsecamente laboriosa, è ciò che permette a noi e a tutto quello che vediamo di non essere un accumulo informe, ma materia disciplinata, scolpita secondo la forma dei nostri corpi attraverso l’informazione.

Nelle pitture su tela di Francalanza l’attività del lavoro è solo apparentemente a riposo sotto al sole cocente; essa è in verità sotterranea, silenziosa ma continua, come la pulsazione di un cuore.

Le sculture di Risaliti sono espressione stessa e simbolo dell’azione attiva del lavoro, il martello e le tavolette di marmo ricoperte di fuliggine che le rende lavagna ne sono un esempio.

La verità l’ha il fuoco perché esso è percepito come la fonte che, similmente alla teofania vissuta da Mosé e descritta nel Libro dell’Esodo, custodirebbe la Verità, la sintesi rappresentabile dell’Essere, il segreto della nascita della Vita.
Da dove veniamo? Siamo figli dell’energia e del suo fuoco interiore.
Alla comune domanda, rivolta alla realtà stessa da parte degli artisti, è data la più semplice delle risposte: “Io sono colui che sono” .

Orari ordinari: dal Martedì al Sabato 15.30-19. Contatti: info@studiolalineaverticale.it | +39 392 0829558 | +39 335 6045420.

Sito internet e social networks: www.studiolalineaverticale.it | Ig-In-Fb: @studiolalineaverticale Studio La Linea Verticale srl

Il frutto proibito del Giardino dell’Eden, il pomo della discordia della Guerra di Troia, il dono avvelenato della fiaba dei fratelli Grimm, la mela in equilibrio sulla testa del figlio di Guglielmo Tell, quella che cade in testa a Isaac Newton, quella con cui si suicida Alan Turing, fino alla mela addentata del logo Apple. La mela è simbolo ricorrente nella cultura occidentale, dalle origini ai nostri giorni, sempre connesso all’incrocio tra Eros e Thanatos, tra vita e morte, piacere e sofferenza. Jacopo Risaliti nell’opera Alma-aty fissa nel marmo questa sfera caduca: non potrà deteriorarsi, non potrà mai diventare bacata come la mela della Canestra di frutta del Caravaggio, l’incedere del tempo non potrà scalfire la sua buccia dura e levigata.
Ma è la patina del frutto che parla allo spettatore, che è rivelatrice di quello che è stato, di quello che è o sarà. Il candore etereo del marmo è sporcato dal nero della fuliggine: la mela marmorea ha superato una prova del fuoco, è stata testimone del passaggio delle fiamme.
La patina ambrata testimonia la sospensione dei materiali dopo l’apocalisse. Che cosa resta dopo l’incendio? Che cosa rimane dopo la combustione?
Come in una stanza pompeiana dopo la vampata dell’eruzione, tutto l’ossigeno è evaporato… e con esso si è spenta la vita. Le cose superstiti di un fuoco che non brucia più sono reperti, testimoniante immobili e fredde, nature morte.
E dall’intreccio tra marmo e fuliggine nasce l’opera Presenza assente. La traccia di ciò che è stato avvolge la materia nel buio, spegne la luce del marmo, tinge di nero ciò che un tempo era neutro. Il marmo non si è scomposto né dissolto, ma ha trattenuto il segno di un passaggio, il ricordo di un incontro che ha infiammato e incenerito. Il passato rimane attaccato al presente, come l’ombra di un trauma che non passa. Sembrano risuonare nel vuoto i versi struggenti di Attilio Bertolucci:
Assenza,
più acuta presenza.
Vago pensiero di te
vaghi ricordi
turbano l’ora calma
e il dolce sole.
Dolente il petto
ti porta,
come una pietra
leggera.
Due martelli in marmo, vicini, si sfiorano senza toccarsi. Evocano l’energia della costruzione e della distruzione, l’azione del creare e del disfare. Nell’opera Hammers Risaliti crea un campo di energia potenziale, un momento di stasi prima del colpo, una trasformazione di forza solo in potenza.

Ma il martello racchiude anche il fare artigianale e il gesto dell’artista. Hammers è un autoritratto concettuale dello scultore rappresentato dal suo strumento e dalla sua materia.
Lo strumento, però, si dà per assenza; l’utensile nega la sua natura ‘utile’. Il martello di marmo è un non-martello: l’hammer di Risaliti si nega come strumento che ‘serve a’ martellare e si mostra come opera d’arte. Il pezzo di marmo ha solo la forma del martello, ma nega la sua funzione: si affievolisce la sua forza distruttrice e creatrice.
“Il martellare stesso svela la specifica maneggiabilità del martello” scriveva il filosofo Martin Heidegger. Il nostro sguardo è costretto a un ribaltamento di senso. Siamo abituati a ridurre il martello alla sua funzione, alla sua utilizzabilità, all’uso che possiamo farne come protesi della nostra mano, per ampliare la nostra capacità creativa e produttiva.
Ma più riduciamo una cosa al suo uso, meno siamo in grado di guardarla nella sua essenza. Solo la poeisis, il fare dell’artista, è in grado di trasformare un oggetto utile in un oggetto di contemplazione.
Solo quando si interrompe la funzione di utilità – quando lo strumento si rompe, quando il martello non riesce a martellare – siamo in grado di inserire l’oggetto in un orizzonte più ampio, in una connessione estetica che va al di là della sua funzione pratica tecnica. Rimane il bello, senza l’utile.
Di fronte ai martelli marmorei, siamo chiamati all’in-azione: non possiamo impugnarli per aumentare la nostra forza, non possiamo usarli per agire sulla materia e trasformarla. Di fronte all’inutilità dell’opera d’arte, siamo inermi e fragili, chiamati alla conservazione dell’energia e non alla sua dispersione.

Lucrezia Ercoli – Giugno 2023

La prima volta che ho visto i lavori di Giuseppe Francalanza nell’Aula Caccioni, dove gli studenti espongono ogni settimana le loro opere per potere discuterne davanti a tutti, ho pensato che mi ricordavano dei quadri che avevo visto molto tempo prima. In seguito ho riannodato i fili della mia memoria e ho ricordato che quelle figure aperte, con le articolazioni e le ossa in primo piano, dall’evidenza celata e dal forte mistero iconografico, mi rimandavano a delle opere di Leonardo Cremonini della fine degli anni ’50, un artista che ha vissuto molto tempo in Italia del Sud e nelle isole Eolie, cosa di fondamentale importanza per quanto riguarda la luce mediterranea a cui resterà legato per sempre.
Analogamente a quello di Cremonini, l’assunto figurale che Giuseppe Francalanza sviluppa nei sui dipinti assume inflessioni simboliche, metafisiche, surreali e sfugge volutamente a una facile classificazione. Certamente è una pittura esistenziale se prendiamo il termine non dal punto di vista filosofico ma nel senso di avere corrispondenze con la propria esistenza e che rimanda alla radice vera e autentica della terra di origine dell’autore, quella Sicilia cocente e arsa di cui parla Giuseppe a proposito del quadro Disertori, che fa parte di una nuova serie che “intende portare avanti un discorso di stanchezza e di svuotamento, un’impotenza delle figure stesse che si lasciano ardere dal sole, che si contorcono, del cui movimento percepiamo solo gli arrossamenti della pelle”.
A proposito di questa serie, la cui atmosfera mi ricorda, nella parte più grafica, i pastelli di Piero Guccione, Giuseppe scrive: “Il punto di partenza è l’ora meridiana che coincide con la fine della mattinata e l’inizio del pomeriggio. Questo particolare momento, nei luoghi mediterranei, coincide in periodi estivi con una totale perdita di forze, con l’impossibilità di compiere azioni contro la forza del sole. Quelle su cui sto ragionando sono forse delle rese, vari modi di abbandonarsi, e vari modi di continuare a nascondersi, seppure le figure siano situate in campi aperti”. Francalanza probabilmente si riferisce allo stinnìcchiu siculo che ha dei connotati del tutto peculiari, dal momento che, oltre a indicare l’abitudine a fare la siesta nelle prime ore del pomeriggio, quando l’arsura si fa sentire, presenta numerose altre sfumature. In primo luogo, per esempio, il verbo stinnicchiàrisi vuol dire far rilassare le membra nella sua forma riflessiva: e questo senso di rilassamento e di stiramento lo percepiamo nei quadri esposti in mostra. Ben oltre la semplice definizione di siesta mediterranea, quindi, lo stinnìcchiu diventa un vero e proprio modo di porsi, un’attitudine alla teatralità o perfino suggerire qualcosa dai risvolti poco piacevoli quando indica la perdita di zuccheri che porta allo svenimento.
Ecco allora che quel cane e quelle membra sparse, in bilico tra l’animale e l’umano, che sono i soggetti dei quadri di Giuseppe, hanno avuto semplicemente un calo di zuccheri o si stanno riposando sotto la luce del sole: i colori delicati, tono su tono, il ritmo armonico tra il disegno e la pittura, il silenzio che satura le tele non comunicano drammaticità ma una atmosfera onirica ed enigmatica, pregna di inquietudine sottile, vissuta con una certa dose di abbandono. Il risultato è una pittura felicemente ambigua, trasmutante tra effetti realistici e invenzioni informali, che conviene apprezzare avvicinandosi alla sua pelle, con una visione diretta e ravvicinata.

Maura Pozzati – Giugno 2023