Simona Cristofari – Testo critico di Jacopo Volpi

Riflessioni su quattro dipinti di Simona Cristofari

Se la risolutezza incorporea sembra preconizzare al dovere della visibilità e l’adiacenza compatta delle forme cromatiche e le scarne linee di sintesi vanno gloriando la forza del vedente, quest’ultimo per certo non potrà risolvere in un colpo di sguardo o un colpo d’occhio le plurime sfaccettature che traducono codeste rappresentazioni. Niente sembra possedere consistenza se non il rapporto inter relazionale fra chi va osservando e chi, infrenabile, si va mostrando – l’opera: il comporsi è assolutamente univoco, il rapporto si risolve in un dialogo costante che non agogna o, ancor meglio, non ambisce ad altro se non a se stesso; l’esclusione è, difatti, completa; il resto è assorbito nelle tele, il contesto è assolutizzato nel vagheggiare dell’osservatore e, senza soluzione di continuità, l’intuizione si dipana improvvida senza dar adito a risposte di diniego.

Mentre i dipinti esprimono il loro comporsi e scomporsi, il loro esplodere nelle forme del colore – nel sanguinare del tramonto o, piuttosto, in un grigio-rame d’un pomeriggio tardo, nel dipoi d’una gragnuola o d’una pioggia appena assorbite dal fogliame inumidito – l’osservatore sembra destinato, come da un anatema, da una condanna inesplicabile e, per questo, paradossalmente effabile per i sensi, a imprigionarsi in se stesso e contro se stesso vanamente assorto e pur tuttavia audace. Contemplare tutto ciò da una certa distanza per certo non fisica, ma emotiva,  – coscienti della costante nondimeno necessaria corrispondenza di legame – ci consente invero di cogliere ancor più appieno la fragranza intima delle pitture. L’essenza coloristica è potentemente immanente, depauperata da ogni elemento lineare e plastico, e ciò che prevale è la coesione, la pervicacia inestinguibile dei colori, sublimanti in garriti di pulviscolo cromatico ch’assumono le forme d’una avventata emorragia di pigmento.

Il righettato che si impone fra mezzo al rapporto, a guisa di filtro o mediazione, non fa altro che esacerbare la virulenza e la passione traverso cui s’esprimono gli informi colorismi; ed attenzione: questa ‘resistenza’ del colore non è un fine preventivamente meditato né un falso giuoco di fantasmagorie formulate tramite rigorose concrezioni naturalistiche ma è una vera e propria postulazione a cotesto elemento terzo che, pur lieve, sembra voler assurgere ad oggetto ‘incomodo’, assumendo il ruolo dissipatore e dissolutore di eventuali astrazioni, e pertanto riportando il tutto ad una concretezza, ad una realtà solida e netta; postulazione o, diremmo meglio, momento di questua, che va a ribattezzare, esasperandola, la conformazione succitata riconducendo la sostanzialità delle opere alla loro predestinata corporeità: dispiego fisico del colore in una tensione continua di correnti e rigurgiti di tinta, fra frammenti timbrici di ritmo scosso e irremovibile ad un tempo. Quindi ogni tramezzo, ogni trafila sia irruente sia soave non può imporsi al decifrare silenzioso fra vedente e visibile; ogni elemento che si frappone a oggetto e soggetto non svolge che un ruolo di scarna allitterazione, di falsa coordinazione, destinato a involgere il suo ruolo a miserabile proposizione di fatto: tentativo inespresso di elemento dialettico. Dacché quello che, per appunto, avviene, non è un processo dialettico ma un variegato intrecciarsi bilaterale risolventesi in un continuo fluente andirivieni in cui l’animo, balenando di piacere, si pasce.

Jacopo Volpi

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simona-cristofari-oltre-mare  Simona Cristofari, Oltre – Mare

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