SOVERETO IN LUCE 2017 – 27/07 – 30/07

Nell’ambito di Sovereto Festival 2017

dir.artistico Paolo Lepore

SOVERETO IN LUCE 2017

27 – 30 luglio 2017

Borgo di Sovereto – Terlizzi (BA)

a cura di Francesco Sannicandro

testo critico di Francesco Paolo Del Re

Artisti partecipanti

Dario Agrimi – Aurora Avvantaggiato – Rossana Bucci & Oronzo Liuzzi – Antonia Bufi – Peppino Campanella -Raffaele Cappelluti – Mariangela Cassano & Gianni De Serio – Pierluca Cetera – Guido Corazziari – Angelo Cortese – Franco Cortese – Jutka Csakanyi – Lisa Cutrino – Pietro De Scisciolo – Giuseppe Fioriello – Angelo Galatola – Nicola Illuzzi – Beppe Labianca – Sergio Laterza – Gabriele Liso – Walter Loparco – Vincenzo Mascoli – Massimo Nardi – Bianca Roselli & Arcangelo Ambrosi – Francesco Sannicandro – Grazia Savoia – Paolo Tinella – Franco Valente – Antonella Ventola

E la partecipazione straordinaria di

L’N divenire Contemporary Dance Company

direzione artistica Natalizia Leccese

Illuminanti variazioni e un’antica icona

Francesco Paolo Del Re

In principio il buio: una cavità ipogea, all’interno della quale viene scoperta miracolosamente una sacra icona mariana. Il dipinto viene portato alla luce, restituito allo sguardo nella sua iconicità e quindi investito della chiarità del riconoscimento. Si fa spiraglio per l’irruzione dell’eccezionale nell’ordinario, suggello di una discontinuità, offerta porta al culto e alla devozione e, in ultimo, tesoro da preservare. E così, sul luogo di quel ritrovamento fortunoso, un santuario viene edificato, a perenne memoria di un’illuminazione e come baluardo di luce contro il disordine del mondo. Fuori del racconto fondativo, leggendario, resta la metafora della luce come occasione di fuoriuscita dal buio e incipit di un progetto. E questa metafora di luminosa apparenza può essere utile per descrivere una certa idea dell’arte che – più che processo o dispositivo – si pensa progetto e si finalizza, perciò, alla realizzazione di un’opera compiuta, conchiusa, offerta allo sguardo.

Ventinove interventi di trentadue artisti (alcuni lavorano in coppia) sono raccolti, nel segno della luce, da Francesco Sannicandro a Sovereto, all’interno e all’esterno delle strutture del monastero che sorge accanto alla chiesa di Santa Maria, lo scrigno medievale che custodisce la sacra icona ritrovata sotto terra. Sono raccolti in mostra interventi multiformi e variegati che declinano in modi differenti il nesso che collega arte e luce, passando dalla pittura all’installazione, dalla scultura al video, dalla fotografia all’assemblage, in una diversificazione di materiali, di supporti, di formati e di enunciati. Il titolo è manifesto – “Sovereto in luce” – per una rassegna arrivata alla seconda edizione e intrecciata con un festival di musica, cinema e incontri letterari all’aperto. E l’arte, una presenza a volte discreta e a volte sfacciata, in questo scenario dischiuso davanti alle porte dell’antica chiesa s’infiltra, s’insinua, conquista spazi, apre porte.

Sono numerosi gli artisti che utilizzano la luce stessa, i suoi supporti (la lampadina, il neon, il led), come materiale. In alcuni casi adoperando un singolo punto luminoso come elemento essenziale di un’elaborazione tipografica che, nella giustapposizione delle varie unità, affida al linguaggio scritto il compito di veicolare un messaggio (Angelo Cortese). In altri casi invece piegando la luce come fosse un segno al servizio di un’operazione di citazione e di risignificazione della storia dell’arte del Novecento (Angelo Galatola che ripensa Lucio Fontana, Guido Corazziari che sembra dialogare con Gilberto Zorio), non senza fare ricorso alla stessa pittura con la quale l’elemento luminoso si trova a convivere (Jutka Csakanyi su René Magritte). La stessa superficie illuminante di un riflettore teatrale diventa, in quest’ottica, supporto su cui si fa leggere una lastra fotografica che, schermando il raggio luminoso, svela la calligrafia di un corpo magico (Massimo Nardi).

La luce può essere inoltre strumento o pretesto per fare una scoperta o una narrazione di sé, all’interno di lavori autobiografici, di autoritratti o antropometrie (Dario Agrimi, Antonia Bufi, Aurora Avvantaggiato). In altri modi, la suggestione luminosa s’incarna e trova un corpo o un simulacro di esso in cui incardinarsi, nella progettazione di lampade-sculture che addomesticano la tentazione del postumano a cui i linguaggi contemporanei ci hanno ormai abituato (Francesco Sannicandro, Walter Loparco, Mariangela Cassano & Gianni De Serio). Dall’umano all’animale il passo è breve: la bioluminescenza tipica di alcune specie diventa protagonista di sculture o installazioni che danno forma a rettili, molluschi o cnidari (Peppino Campanella, Bianca Rosselli & Arcangelo Ambrosi, Paolo Tinella), senza però avere alcuna pretesa di una rappresentazione fedele del dato naturalistico. E i fiori ovviamente, che di luce sono nutriti, trovano posto in mostra con tautologiche trovate (Lisa Cutrino) o in guisa di ricordi filtrati da memorie fotografiche (Giuseppe Fioriello).

Il lume torna alla sua funzione propria quando viene utilizzato per rischiarare una pittura religiosa dal sapore popolare (Raffaele Cappelluti), arrivando a mettere in scena la stessa Madonna di Sovereto, incastrata nella dimensione liminare di una soglia (Franco Valente); uscio che ricorre pure altrove, ripulito dall’elemento iconico e restituito alla semplice evidenza di una soglia da varcare o prima della quale sostare (Nicola Illuzzi). Il tema del sacro si ritrova peraltro anche in declinazioni più poveristiche, rese possibili dall’accostamento virtuoso di una scala e una stoffa retroilluminata (Grazia Savoia).

Illuminante è poi la critica al presente, alla società globale e connessa estroflessa in un flusso di comunicazione incessante, che può manifestarsi a volte con ironia attraverso l’utilizzo spiazzante dello stesso linguaggio pubblicitario (Sergio Laterza) e altre volte essere sostenuta dall’evocazione della dimensione del gioco dell’infanzia (Rossana Bucci & Oronzio Liuzzi). Materiali quotidiani, industriali o di recupero, come la lamiera, possono essere piegati e investiti di una luminosità interiore, tra tridimensionalità informale (Vincenzo Mascoli) e rigori di astratte geometrie (Franco Cortese), oppure si lasciano traforare come leggeri merletti o grattacieli in miniatura (Gabriele Liso).

Complesse strutture, tutte da decrittare, si dispiegano ulteriormente nello spazio in forza dell’incontro di una pluralità di materiali, capaci di restituire temperature emotive differenti, cariche di simbolismi o in declinazioni di stratigrafie: una polarità di ossimori collega così la leggerezza aerea di un’altalena su cui una piccola figura sta sospesa (Antonella Ventola) e la rigorosa logica gravitazionale delle stratificazioni su cui veleggia una barchetta (Pietro De Sciciolo).
La pittura non manca e sceglie come supporto sagome metalliche, accompagnandosi al neon per articolazioni installative (Beppe Labianca). Particolarmente prezioso, infine, il lavoro di Pierluca Cetera, che rimettendo in moto il meccanismo stesso del disvelamento iconico che fonda la costruzione del santuario soveretano, sceglie il buio e il fiammifero come espedienti: al pubblico il compito di sfregare la capocchia sulla superficie abrasiva che ospita la sua pittura, graffiandola, innescando la combustione e svelando il dipinto, in un gesto apotropaico di appropriazione dell’immagine che dà vita al visibile e si consuma, per la breve malia di una fiammella che scema.

È tutta qui, in questo baleno, la magia dell’arte che nel moto incessante di mettere in luce ciò che porta fuori dal buio e però al buio sempre tende – in una promessa di eterno che tutti gli attori in scena riconoscono nella sua effimera fallacia – traccia confini, delimita zone di senso, esperienze di fruizione, recinti di condivisioni, nazioni immaginifiche e arcipelaghi di affratellamento. Confini da superare, mappe da ridisegnare, esperienze da mettere in circolo, orientamenti da ritracciare. Liberando, anche se temporaneamente, zolle tettoniche di desiderio che accendono i sensi. E questo illuminarsi è tutt’uno con l’esperienza del sacro, con quell’estasi che cova e balugina come brace nel fondo del groviglio di contraddizioni che ci ostiniamo a chiamare umano. Un territorio che sconfina con un perenne altrove, un abbacinare mai cessato, “che solo amore e luce ha per confine”, come scrive il Sommo Poeta nel XXVIII canto del Paradiso.

Francesco Paolo Del Re