Fabrizio Giorgi e i “codici a barre” – Bruno Sullo

LA NUOVA RIFLESSIONE DI GIORGI: TRA IDENTITA’ E ARBITRIO

L’ultimo progetto di Fabrizio Giorgi nasce da una sua nuova riflessione sul mondo, sui suoi problemi identificativi, sui suoi metodi di catalogazione e sui valori messi in forse della libertà e dell’autonomia personale dell’uomo. La riflessione da parte di un artista può essere una fase preparatoria, speculativa, ma non può non trovare una propria linea d’espressione, una modalità figurale o simbologia attraverso cui esercitare la propria dialettica e tradurre le proprie motivazioni concettuali. Nello stesso tempo l’artista contemporaneo, consapevole della propria contemporaneità, non può ignorare, nel trasferimento del concetto, il contesto, le ritualità, le operazioni che caratterizzano la struttura della società. Ad esse, dunque, deve riferirsi per rendere intelligibile e proprio il suo progetto, prima di dotarlo di quell’opportuna aura di artisticità che gli conferisce potenza e profondità.

Per la sua nuova avventura artistica Giorgi ha scoperto un soggetto particolare, con una sua precisa individualità formale e, al contempo, si presta ad essere il riferimento metaforico di tutta una serie di concetti e di problematiche che nutrono uno scenario artistico di elevata significatività: questo soggetto, estratto dalla più comune e consueta quotidianità e il codice a barre, comunemente utilizzato nella catena distributiva e in quella di catalogazione per attribuire identità, riconoscibilità e classificabilità a oggetti, documenti o altro. Il codice a barre è al tempo stesso un importante strumento d’ordine e un pericoloso elemento d’inquadramento e di prevaricazione: come quasi tutte le componenti della vita. Al codice a barre l’artista contemporaneo, non soggetto ai canoni classificatori tradizionali, può accostarsi con un atteggiamento interlocutorio, d’investigazione, per estrarre da esso il senso funzionale, ma anche gli aspetti formali, e per costruire un edificio complesso, articolato, ricco di aperture innovative.

Occorre anzi tutto sottolineare che questa intuizione di assumere i codici a barre a elementi simbolici, a metafora della condizione umana, non è conquista recente: già negli anni ’90 del 1900 l’artista era stato attratto da queste icone della contemporaneità e aveva fatto di loro i soggetti di alcune opere, riproducendole da etichette (ad esempio di Coca Cola) ed assumendole come elementi formali artisticamente interessanti. E non era, risolta in questo modo, un’idea particolarmente innovativa.

La nuova frontiera di Giorgi consiste nell’utilizzo di un programma informatico che non riproduce, ma produce codici a barre, e trasforma in barre i numeri secondo una standardizzata operazione di codifica. Giorgi aggiunge a questo una sua peculiare, arbitraria chiave codificativa associando ai numeri delle lettere secondo la posizione assunta da queste nell’alfabeto a 26 simboli letterari: la lettera “a” è dunque codificata come 1, la “m” come 13, la “w” come 23, e così via. In questo modo è possibile trasformare le lettere in  numeri, questi in barre, e le parole, divenute serie di numeri, in codici a barre; allo stesso modo la barra diventa “leggibile”. Il fatto che la chiave di codifica sia del tutto arbitraria, quindi soggettiva e fallace, non inficia l’operazione, che non è totalmente semantica, e che comunque si rapporta a quanto c’è di fallace, soggettivo e problematico nell’esistenza dell’uomo.

Il procedimento di codifica, presente al momento dell’ideazione ed anche della costruzione dell’opera, non è così definitivo e condizionante come può apparire. Esso può essere disatteso o parzialmente abolito all’atto finale così da recuperare all’opera una imprevista libertà, o può essere modificato per intenzionali ablazioni di componenti numerici fino a produrre l’inconoscibilità della parola su cui l’opera era costruita: in questi casi la creatività dell’artista interviene sull’assetto visivo dell’opera, a porre un quesito, di ascendenza magrittiana (o, se si vuole, kosuthiana), sulla corrispondenza tra nome e suo significato, o tra nome e sua leggibilità.

Ma di queste opere sorprendentemente mature di Giorgi esistono altri livelli di lettura. Da questo punto di vista si possono indicare: i valori costruttivi (la metodologia formativa, manuale, di taglio ed assemblaggio) che supporta la realizzazione del lavoro; i valori visivi legati all’espressività del colore (per lo più monocromatico), al gioco degli spessori, al variare delle ombre in rapporto al tipo d’illuminazione, all’effetto “ammorbidente” espletato dalla tela passata sui rilievi e sugli avvallamenti; la difficoltà dell’esecuzione, basata su incollaggi successivi della tela sulle stecche sporgenti (le “barre”) e sulla sua forzatura entro gli avvallamenti tra stecca e stecca, oltre che sul ripiegamento forzato della tela stessa lungo i quattro lati dell’opera. Da non sottovalutare, infine, certi effetti di superficie, un gioco di alterità e di diversificazione che aggiunge variabilità al complesso: nello scenario liscio e limpido, monocromatico della superficie assume talora peso e senso l’improvvisa comparsa di una zona ruvida che non danneggia il messaggio visivo globale, ma vi aggiunge un elemento dialettico, d’interna articolazione.

Come inserire questa nuova prospettiva nel quadro più complesso della produzione artistica di Giorgi? Intanto va detto che si tratta di una fase di approccio, di ricerca, destinata con pari possibilità al fallimento o alla conquista di magnifiche sorti e progressive; e che l’ulteriore evoluzione, significatività, qualità sono affidate alla capacità dell’autore di superare lo step iniziale per acquisire nuove prospettive, coerenti ed impreviste, e alla possibilità che l’intuizione che è alla base del progetto si riveli aperto a grandi e liberi voli d’artista. Che è quanto, legittimamente, ci aspettiamo.

Livorno novembre 2010

Bruno Sullo