PAOLO NETTO, TESTO CRITICO DI BRUNO SULLO

STELE, MURI  e CARTONI: l’evoluzione coerente di Paolo Netto

di Bruno Sullo

Evolvere vuol dire cambiare senza ricominciare; vuol dire dunque intraprendere percorsi senza abbandonare la propria linea di pensiero o rinnegare le scelte già effettuate. Questo fa, con assoluta evidenza, Paolo Netto, nel dare il via alla sua più recente stagione creativa, che ha condotto alla produzione delle opere emblematicamente definite Cartoni. Infatti, confrontando queste opere con le precedenti (Manifesti), emergono due elementi  fondamentali, da una parte la continuità ( che è affermata in ogni componente della produzione, da quello linguistico a quello operativo a quello semantico), dall’altra la variazione (che si esplica con l’abbandono di certe soluzioni espressive con l’introduzione di altre): ciò fornisce un’indiscutibile connotazione di omogeneità a tutta l’opera pittorica di Netto, ma la rende anche variegata e differenziata, in grado di produrre nuovi interessi e nuovi entusiasmi nell’autore (e nel lettore).

L’ambito di lavoro, intendendo il campo in cui storicamente può situarsi l’arte di Netto, è e rimane quello genericamente definibile informale-materico, che fa riferimento, con tutti i logici contributi e distinguo personali, a un panorama concretizzatosi nel secondo dopoguerra (fine anni ‘40) che rappresentò un evento decisamente innovativo nella cultura visiva del tempo e che si è protratto praticamente senza soluzioni di continuità fino ai giorni nostri.  La versione di Netto, al pari di altre odierne interpretazioni di questo tipo d’arte, ha perduto molte delle motivazioni iniziali (tra cui «un certo rifiuto della ragione e del razionalismo» e con esso la crisi dei valori su cui si basavano lo storicismo illuministico e la stessa concezione storica di Europa) per conservare tuttavia a liberare l’arte dai canoni tradizionali (non solo iconici) e a stabilire con il mondo reale un rapporto stretto di continuità e sostanzialità, rinvenendo nella materia, nella sua forza, nella sua potenza allusiva un modo spontaneo e diretto di vivere la condizione esistenziale dell’uomo.  Tutto ciò, in Netto, senza rinunciare alla riflessione, al giudizio, alla valutazione dei problemi che si debbono affrontare ogni volta che si vogliano percorrere, consapevolmente, i motivi e le contraddizioni del vivere.

Netto abita in modo personale questo scenario. Inizia con la serie delle Stele e dei Muri in cui associa l’intuizione inquietante del tempo alla drammatica testimonianza di vita che i muri tormentati , scrostati, aridi, “crettati” offrono attraverso  «frammenti di segni geometrici, inclusioni, elementi figurali, tracce di presunta casualità provocate dal gesto libero», così da presentare i temi del vivere in una logica «simile a quelle di un rito o a quella di un gioco»(Riu). Il contesto linguistico e ideologico non cambia significativamente nella serie dei Manifesti, che tuttavia avviano, nella maggior parte delle opere, quello che può essere definito un gioco comunicativo: adottano infatti un linguaggio di alta ed aggiornata tecnologia(quello degli sms) accogliendo sulle loro superfici scabre e tormentate serie di numeri che, decodificate mediante il telefono cellulare, rimandano a temi, formule ed espressioni definibili  pre-tecnologiche*, provenienti da un tempo « dove, a parer mio, c’era una maggiore considerazione per il prossimo».

*[Talora si tratta di filastrocche infantili, talora della formula d’inizio delle fiabe. Eccone un esempio, decodificato: 222/33772/888662/88866655582 (C’era una volta) ].

Cartoni  sono il risultato di una stagione creativa successiva, preceduta da una riconsiderazione critica delle suddette tematiche (Rivisitazioni), una sorta di ritorno e di denudamento di ciò che i Manifesti avevano coperto. In questa fase di lavoro, in accordo con quanto si diceva all’inizio di queste note, lo scarto rispetto alle prove precedenti è al tempo stesso netto ed equilibrato, ed è prodotto da due elementi nuovi che entrano nella costituzione stessa, direi nello statuto delle opere: l’utilizzo del cartone ondulato (per intenderci, quello delle scatole d’imballaggio) e l’adozione, definitiva, del monocromo.

L’utilizzo del cartone ondulato non è soluzione particolarmente innovativa; la novità consiste, piuttosto, nella sistematicità di esso, che finisce per riproporlo come elemento specifico delle opere, un po’ come il sacco di juta di Burri, gli impasti di Fautrier o il caolino di Manzoni. Il cartone ondulato è assunto del suo significato di materiale “povero”, quotidiano, perfino dozzinale, il che sottrae l’opera a qualunque intenzionalità accademica o di eccellenza, per riconsegnarla all’ambito che le compete, la vita degli uomini; tanto più che si tratta sempre di cartoni usati, che conservano i segni e la memoria delle loro vicissitudini e che sono destinati altrimenti alla distruzione, come materiale che “non serve più”. Questo cartone costituisce il substrato, il campo epifanico dell’evento artistico, ma, come si intuisce, non è un semplice supporto, una superficie anonima e indifferente, è un interlocutore attivo e potente, capace di sostenere un dialogo serrato con l’autore e di gettare in esso tutta la forza e la significatività della propria natura.

Su questo cartone Netto esegue una serie di azioni moderatamente istintuali (o moderatamente programmate) che producono segnature, rotture, graffi, buchi, tagli, come a segnalare ed evidenziare una storia drammatica che sta dietro la creazione artistica, drammatica come la vita. Sono irregolarità non dissimulate, anzi esibite, intese come elementi identificativi di un’arte che vuol essere espressione non filtrata, non sublimata dell’esistenza (dell’uomo o delle cose, cioè globalmente della “realtà”). In certi punti sono prodotte (o accolte nel disegno progettuale) delle parziali ablazioni del rivestimento esterno del cartone, scorticazioni che espongono la struttura interna del cartone come per cruenta necessità di conoscenza, e che ricordano certe operazioni di decortificazione effettuate da Burri sul cellotex in opere come quelle della serie dei Giardini o di Annottarsi.  Sul cartone così tormentato, ricco di segni, ricordi e ferite, sono applicati materiali e oggetti diversi, listerelle di legno, pezzi di mattone, fili di ferro, chiodi, lamiere, ritagli ancora di cartone ondulato* .

*  [Inserti di vario tipo erano già presenti, ad esempio, nei Manifesti, con caratteri però diversi: si trattava di oggetti più specifici, autopresentativi, che conservavano spesso una piena riconoscibilità e introducevano note di incongruità o di contraddittorietà capaci di destabilizzare l’impianto dell’opera senza giungere (e non volendo neppure farlo) ad un superiore livello metafisico.]

In più fanno la loro comparsa segni e impronte che rimandano al mestiere del pittore_ dunque latamente  autobiografiche_, sgocciolature di smalto, impronte circolari di barattoli, croste di pigmento e di colla: tutti elementi scelti secondo una capacità di sintesi che non ammette alcuna descrizione analitica di essi, ma abilita una funzione allusiva, di testimonianza e di rimando; una dimensione, dunque, più concettuale e speculativa rispetto ai Manifesti, capace di produrre un’emozione mediata e concentrata, più intima e suggestiva rispetto alla semplice presentazione dell’oggetto in quanto tale.

La conclusione di tutte queste osservazioni è che Netto assume come elemento centrale della propria riflessione artistica una componente “storica” dell’arte visiva, la superficie.

Questo inserisce l’autore in un contesto illustre, abitato per altro in modo personale e autonomo, con una precisa con una precisa scelta di campo in senso fisico_materico (vedi Burri, Tapies, Manzoni), piuttosto che speculativo_concettuale (Mondrian, Fontana).  In effetti Netto non rinuncia mai al piacere della manipolazione, dell’intervento attivo, del contatto diretto con la materia e i materiali, cosicchè il suo lavoro non smarrisce il valore della concretezza, il senso della presenza e dello spessore, insomma la sua identità. La superficie diviene la protagonista di un dramma che la investe con tutta la sua forza fisica, anche se la supera per alludere a scenari di più ampia portata esistenziale; le irregolarità, le rotture, gli attraversamenti e le sovrapposizioni sono i sintomi inconfondibili d’un malessere profondo che ha nell’artista, e dunque nell’uomo, il suo riferimento privilegiato.

Questa superficie è, infine, investita di un unico colore. La monocromia, già presente come tendenza nei Manifesti *, diviene adesso un tema fondamentale della riflessione artistica dell’autore e lo inserisce in un ambito operativo di grande importanza storica che si impose in Europa alla fine degli anni ’50 e fu documentato da una importante mostra organizzata del critico Udo Kultermann a Leverkusen (1960) denominata , appunto, “Monochrome Marelei”.  Una tendenza  praticata anche negli USA dagli artisti della seconda generazione della New York School (Rothko, Newman, Louis e Olitski), da Ad Reinhardt ( che alla metà degli anni ’50 realizzava i suoi Black Paintings dalle sottilissime, infinitesimali, variazioni cromatiche), e da Rauschenberg autore di  Black e White Paintings.

*Nei Manifesti l’invadenza del colore unico è spesso tagliata e come messa alla prova da piccoli lampi di colore diverso, acceso e contrastante, che finiscono per caratterizzare l’opera fornendole una peculiare e specifica connotazione identificativa.

In realtà i monocromi statunitensi e quelli europei non sono sovrapponibili. I primi non sono, propriamente, monocromi, poiché accettano scarti cromatici e sfumati contrasti, dunque una riflessione sul molteplice e sul diverso. Ad Reinhardt è certamente il più rigoroso ed ascetico esponente di questa tendenza, giungendo ai confini ultimi dell’espressione («art as art»), ma come detto sopra, accetta una sia pur minima varianza che è pur sempre varianza, anche se finisce per accentuare l’idea della monocromia; i monocromi di Rauschenberg sono uno specchio capace di assorbire il mondo e dunque supportano un atteggiamento attivo, vitalistico, talora eroico.  Il versante europeo costituisce un panorama più ineguale e articolato, che va dal forte e ineffabile impulso spirituale di Yves Klein alla dura, scabrosa aridità del caolino di Manzoni, alle esperienze spazialisti che di Fontana, Castellani e Bonalumi basate sulla plasmabilità fisica del supporto testata con le metodologie rigorose della reiterazione e della sintassi spaziale. A parte va probabilmente considerata l’opera di Robert Ryman, un’ipotesi di “far pittura” «guidata da una più marcat attenzione analitica, autoriflessiva» (Menna).

In questo scenario complesso ed eccellente il monocromo di Netto dimostra una sua personale identità: non è spirituale come quello di Klein, né arido e aggressivo come quello di Manzoni, né optical come quello di Castellani e Bonalumi, né analitico  percettivo come quello di Ryman; presenta, piuttosto, un’interessante valenza di pittura  “classica” poiché mantiene un insopprimibile bisogno di colore ( colore come colori), e adatta ad esso ogni progetto di espressione e di comunicazione, attingendo dunque ai valori “storici” del dipingere e attualizzando in modo suggestivo un lavoro antico e, in certe declinazioni contemporanee, un po’ frusto.  Il monocromo di Netto non cancella l’interesse per la superficie (la sua concretezza, la sua storia, il suo tormento), né per i materiali applicati ad essa ed emergenti dallo strato uniforme di colore; anzi, rende al cartone ondulato e agli oggetti tutta la loro forza espressiva e la loro consistenza, sottolineandone lo spessore, il gioco dei piani, gli effetti di chiaroscuro, con risultati di indiscutibile appeling. Al tempo stesso produce una controllata omologazione dei contrasti, delle diversità, che induce il lettore ad una più attenta osservazione del complesso e dei dettagli, indispensabile a cogliere e analizzare la sensazione di malessere esistenziale che i lavori trasmettono.

Bruno Sullo

Livorno, agosto 2009